Da un lato si possono introdurre strumenti temporanei a sostegno di riforme ed investimenti urgenti, ma dall’altro si può, e si deve, pensare a creare una produzione permanente di beni pubblici europei che investa diversi settori, a partire proprio dall’energia.
“L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni date a queste crisi”. Ci ricordiamo bene tutti la storica frase di Jean Monnet che risuona ancora oggi più forte che mai. E quante volte in questi anni abbiamo sostenuto di essere di fronte ad una finestra di opportunità, di dover lavorare per non perdere l’occasione di fare passi avanti nel processo di integrazione. Con le prime risposte europee alla crisi pandemica, ci siamo nuovamente caricati di fiducia e di aspettative. Anche il ritorno della guerra nel nostro continente ha contribuito all’aumento di fiducia da parte degli europei verso l’esigenza di risposte sovranazionali. Lo dimostra un sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato l’estate scorsa, in cui il 65% degli europei vede l’appartenenza all'UE come positiva, il risultato più alto dal 2007, indicando come prioritaria la difesa dei valori comuni. Si tratta, se vogliamo, di una naturale conseguenza di un’azione: di fronte alle sfide che dobbiamo affrontare, rispondiamo più efficacemente se mostriamo solidarietà.
Ora però l’Europa, chiamata a trovare soluzioni comuni anche sul tema dell’energia, sembra aver perso quello slancio intrapreso esattamente due anni fa. Era infatti il 10 novembre 2020 quando il Consiglio e Commissione trovarono l’accordo, per certi versi storico, relativo alle risorse proprie.
Un primo tentativo è stato fatto al Consiglio europeo di fine ottobre, con il raggiungimento di un faticoso accordo strappato a tarda notte sul “price cap”, i cui dettagli operativi dovranno ancora essere redatti. Si tratta di un’intesa di massima, infatti è stato dato mandato alla Commissione di scrivere le proposte, proprio come accadde con il Next Generation EU. Il pacchetto approvato dai leader europei, prevede: corridoio dinamico sul tetto al prezzo del gas, disaccoppiamento fra costi del gas e dell’elettricità, acquisti e strumenti comuni per affrontare il caro energia.
Questa volta però sembra tutto molto più complicato, i Paesi membri sono divisi con forti resistenze del fronte guidato da quelli dipendenti dal gas russo, Germania in testa, e non lasciano ben sperare sulle possibilità che i ministri dell'energia riescano ad accordarsi per un via libera definitivo delle misure proposte. L’acquisto congiunto rappresenta la misura più agevole e condivisa (saranno effettuati su base volontaria, ma a partire da una soglia minima obbligatoria del 15%), mentre sui tetti ai prezzi la questione è più controversa.
L’introduzione “è molto difficile, i Paesi membri sono divisi e quelli con spazio fiscale maggiore sono i meno interessati poiché temono di più le implicazioni sulla sicurezza degli stock". Lo ha detto Stefano Grassi, capo di gabinetto della Commissaria UE per l'Energia Kadri Simson, a una conferenza di Comin & Partners all'Europarlamento.
Per questo motivo il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha scritto una lettera alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per ricordarle di fare presto nel presentare una proposta di attuazione delle conclusioni del Consiglio europeo. Sta di fatto che la proposta sul 'price cap' per gli Stati resta un tema controverso e molti premono per vederci chiaro sui termini precisi dei meccanismi prima di ratificare gli accordi.
Nel frattempo il rischio che ogni Stato agisca in solitaria è altissimo, come ha tentato la Germania annunciando un piano di aiuto e sostegni alle famiglie ed imprese di circa 200 miliardi di euro. Facile intuire che si tratta di importi che altri Paesi europei difficilmente possono eguagliare, con il rischio alto di creare forti squilibri all’interno del mercato unico dell’UE. Infatti l’approvazione di tali piani aumenta il debito pubblico dell’Eurozona, rendendo anche difficile per la Banca Centrale Europea limitare l’inflazione. Non è certamente possibile rispondere a questa crisi energetica con soluzioni nazionali e usando aiuti di Stato, sarebbe un grave errore.
E le proposte alternative certo non mancano. A partire da quella formulata dai commissari Gentiloni e Breton, lo scorso 3 ottobre con una lettera congiunta pubblicata su alcuni media europei, che sottolineano come “rispondiamo più efficacemente e riusciamo a proteggere meglio i nostri concittadini se mostriamo solidarietà”.
I due commissari europei ribadiscono l’importanza della svolta attuata dall’Unione europea, di come “siamo usciti dall'esperienza ancora dolorosa della pandemia grazie all'imponente piano di ripresa NextGenerationEU, al fondo europeo di sostegno all'occupazione «SURE» e al successo della gestione comune dei vaccini.”
Il cuore della proposta Gentiloni/Breton riguarda proprio il debito comune, “per superare le falle causate dai diversi margini di manovra dei bilanci nazionali, dobbiamo pensare a strumenti mutualizzati a livello europeo”.
Dalla Germania, la cui scelta di aiuti nazionali è stata criticata dai commissari europei, è arrivato un secco no, ribadendo che ci sono altri strumenti che si possono discutere ed attuare e che ci troviamo in una situazione differente dalla pandemia.
Il tema del mettere in campo strumenti finanziati da debito comune riattiva la discussione sulla creazione di una capacità fiscale europea, il punto di svolta per la battaglia per un’unione politica federale. Il debito comune rimane una sorta di tabù per vari paesi europei, che tradizionalmente sono orientati a politiche di bilancio molto prudenti. Da un lato si possono introdurre certamente strumenti temporanei a sostegno di riforme ed investimenti urgenti, ma dall’altro si può, e si deve, pensare a creare una produzione permanente di beni pubblici europei che investa diversi settori, a partire proprio dall’energia.
Sempre la proposta Gentiloni/Breton riporta come “ispirarsi al meccanismo «SURE» per aiutare gli europei e gli ecosistemi industriali nell'attuale crisi potrebbe essere una delle soluzioni a breve termine che apre la strada a un primo passo verso la fornitura di «beni pubblici europei» nei settori dell'energia e della sicurezza, che è l'unico modo per dare una risposta sistemica alla crisi.”
In questo modo si alleggerirebbero i bilanci nazionali, attenuando le differenze tra Stati membri ed emettendo titoli europei di debito più elevati, calmierando anche l’inflazione. Per fare ciò è richiesta una volontà politica senza precedenti, supportata da una fiducia reciproca fra Stati.
Tutto ciò porterebbe ad una sovranità europea sull’energia, che rappresenta anche l’unica via per non abbandonare la transizione energetica e gli impegni presi per contrastare i cambiamenti climatici. Come sappiamo esiste un’agenda 2050, che fissa diverse tappe da raggiungere lungo il percorso. Ma tali impegni non sono vincolanti e la loro attuazione ritarda. A partire dal sostituire il carbone ed i combustibili fossili il prima possibile, cosa che non si sta attuando come dovuto, a causa anche della crescente preoccupazione per la scarsità delle forniture di gas e per le bollette elevate dei consumatori. E pensare che la transizione verso un’Europa decarbonizzata è una delle lezioni che abbiamo imparato dalla guerra.
Ma proprio la preoccupazione a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e lo spettro della recessione economica ci fanno dimenticare l’importanza di contrastare i cambiamenti climatici in atto. Lo si vede anche dalla scarsa attenzione rivolta alla COP 27 di Sharm el Sheikh, alla cui apertura il segretario generale dell’ONU António Guterres ha esordito dicendo: “o scegliamo di cooperare o sarà suicidio collettivo !”. Un impegno a cui l’Europa non può sottrarsi.
E proprio l’Europa riuscirà ad uscire dalla crisi se nel lungo termine riuscirà ad aumentare l’offerta di energia di fonti alternative e rinnovabili, ma nell’immediato bisogna comporre un puzzle complesso, a partire dall’impiego di investimenti e risorse comuni. Si tratta di scelte figlie prima di tutto di una visione comune e condivisa.
In questo quadro il nuovo governo italiano può decidere se supportare o meno i commissari italiano e francese. Su questo punto si tratta per Giorgia Meloni di scegliere se dare continuità all’azione del governo Draghi, favorevole da subito alla richiesta di un SURE dell’energia. Ma la partita italiana in Europa resta ambigua e contradditoria, perché da un lato si rivendica la difesa dell’interesse nazionale e nello stesso tempo si chiedono risposte tempestive europee. Proprio il superamento degli egoismi nazionali consentirebbe la realizzazione di politiche comuni, finanziate da investimenti comuni, unica strada percorribile per conciliare sicurezza energetica e transizione ecologica.