Poche settimane ci distanziano ormai dal triste anniversario del 24 febbraio, che segnerà lo scoccare di un anno dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. Una guerra lampo, nei propositi iniziali dei russi, diventata poi una guerra di posizione, fatta di avanzamenti e arretramenti sul terreno, se non ormai di logoramento.

Da un anno la popolazione ucraina patisce un logoramento fisico, assediata, affamata e assiderata dall’azione dell’artiglieria russa nelle zone di guerra, di cui rimane testimonianza visiva nelle città distrutte ed orale nelle vessazioni, nelle violenze e financo nei massacri, come lascito dell’occupazione russa, su cui la comunità internazionale avrà il dovere di far luce alla fine della guerra. Nelle grandi città lontane dal fronte, come Kiev o Leopoli, si subiscono bombardamenti, non più solo su obiettivi militari, ma sulle infrastrutture civili, con l’obiettivo di provocare blackout elettrici, mancanza di acqua corrente e danni agli impianti di riscaldamento per spaventare la popolazione nel periodo invernale.

Dall’altro lato, segni di logoramento si riscontrano anche nel fronte russo. Non solo quelli da tempo diagnosticati dai media occidentali sulla salute precaria del presidente Vladimir Putin e di altri esponenti del governo. Ben più evidenti appaiono quelli relativi alla strategia militare adottata dai russi in questa “operazione speciale” e all’inadeguatezza delle forze armate ad essa finora dedicate.

L’avanzata militare in territorio ucraino si è praticamente arrestata dopo poche settimane di guerra, una volta incontrata un’inattesa, per gli strateghi russi, resistenza civile e militare degli ucraini. I piani iniziali di un’invasione su larga scala del Paese sono stati di conseguenza ridimensionati al controllo del Donbass.

L’incapacità di entrare a Kiev e la successiva ritirata dai suoi dintorni sono stati il primo segnale discordante con l’immagine propagandistica di rinnovata forza e invincibilità che il regime autocratico di Putin ha cercato di costruirsi negli anni a livello internazionale. Ciò nonostante, la progressiva avanzata nel Donbass da parte dell’esercito russo, assediando, bombardando e distruggendo città come Mariupol e Severodonetsk, faceva ritenere il nuovo obiettivo militare potenzialmente raggiungibile nel breve termine.

L’autunno è invece stato segnato dai successi militari della controffensiva ucraina. Nel nord-est ha impressionato la precipitosa ritirata dei russi dalla regione di Kharkiv. Il regime di Putin per la prima volta ha dovuto gestire voci critiche rispetto alla conduzione militare. La decisione di ricorrere alla mobilitazione parziale dei riservisti ha generato malcontento nella popolazione, con episodi di fughe all’estero di giovani russi per evitare la leva.

L’iniziativa dei referendum farsa, illegali secondo gran parte della comunità internazionale, per l’annessione alla Russia delle quattro regioni parzialmente occupate, è stato il tentativo di Putin di stabilire un controllo politico su aree in cui non ha ancora raggiunto quello militare, quasi trasformando l’operazione militare speciale in una guerra per difendere il territorio russo, per cui anche l’uso di armi nucleari tattiche sarebbe legittimo.

La strategia adottata dai nuovi vertici militari per far fronte alle sconfitte, inizialmente giustificata come ritorsione per l’attacco esplosivo al ponte di Crimea, si è così concentrata sui bombardamenti violenti e periodici dei grandi centri abitati, senza distinzioni tra obiettivi civili e militari. Una strategia resa possibile, tra l’altro, dall’alleanza, in chiave antioccidentale, con l’Iran, unico alleato ufficiale nella campagna militare. Sono proprio le forniture di droni iraniani che garantiscono ai russi di portare avanti la strategia di attacco delle infrastrutture civili in Ucraina. Un’alleanza geopolitica tra due autocrazie per far fronte all’isolamento internazionale e proteggersi dalle minacce interne, che rischiano di destabilizzare entrambi i regimi (proteste antigovernative in Iran e il protrarsi della guerra per la Russia).

Gli ultimi mesi di guerra hanno visto i russi ritirarsi strategicamente da Kherson, fino ad oltre il fiume Dnipro, in cerca di una migliore posizione difensiva, rinunciando ad un avamposto strategico per i collegamenti con la Crimea e per operazioni di controllo del Mar Nero. Gli ucraini hanno beneficiato da questa scelta, seppur trovando una città distrutta dalla guerra, con una situazione umanitaria precaria per via dei danni alle infrastrutture energetiche e delle violenze subite dalla popolazione.

La fase di sostanziale stallo riguarda anche gli altri fronti. Gli ucraini stanno proseguendo la loro avanzata da nord-est approcciandosi alla città di Kreminna, nel Luhansk. I russi, guidati dal gruppo di mercenari Wagner, stanno cercando di ottenere nel Donetsk una vittoria militare che restituisca loro entusiasmo. Sono però da mesi impantanati nei pressi di Bakhmut, in un’operazione militare spregiudicata, a detta di molti, per il costo ingente in termini di vite umane perse tra le proprie fila.

La Russia sembra aver bisogno di prender tempo per riorganizzarsi prima di una nuova offensiva, considerato anche il duro colpo all’immagine subito con il recente attacco missilistico ucraino della notte di Capodanno sulla caserma di Makiivka, che ha evidenziato l’impreparazione delle forze armate russe e della sua catena di comando.

La proposta unilaterale di tregua avanzata ad inizio anno da Putin in occasione del Natale ortodosso, sponsorizzata dal Patriarca di Mosca Kirill, è stata respinta dagli ucraini, simboleggiando una frattura anche tra le due comunità ortodosse, proprio perché intesa come volontà di prender tempo piuttosto che un primo approccio per costruire un percorso di pace.

Gli appelli alla pace di Papa Francesco e la mediazione offerta del leader turco Erdogan finora non sono stati raccolti. Putin condiziona qualsiasi negoziato al riconoscimento dei territori annessi alla Russia. Zelensky, non disponibile a veder negata l’integrità territoriale del suo Paese, confida di poterla riacquisire sul terreno militare, per poi, da una posizione di forza, presentare un piano di pace, col sostegno degli alleati, secondo fonti stampa americane già il prossimo 24 febbraio.

Gli alleati occidentali, smentendo per ora i timori di una war fatigue, hanno più volte riconfermato il loro sostegno alla causa ucraina, ad esempio nella Conferenza di Parigi di dicembre, in cui sono stati raccolti aiuti per il sostegno e la ricostruzione per l’ammontare di 1 miliardo di euro. L’Unione europea, coesa sulla necessità di supportare il popolo ucraino con importanti manifestazioni di solidarietà, quali l’invio di generatori per far fronte all'emergenza energetica e l’approvazione di un nuovo programma annuale di assistenza finanziaria strutturale all’Ucraina per 18 miliardi di euro, è ancora limitata dal suo intergovernativismo che la costringe spesso a mediare al suo interno su compromessi al ribasso, come le concessioni fatte all’Ungheria per superare il suo veto al pacchetto di aiuti.

Per questa ragione il governo di Zelensky continua a confidare maggiormente sugli USA, per via degli aiuti militari determinanti a sostenere la propria causa. Sotto questo punto di vista l’invio di missili Patriot, ritenuti il sistema di difesa aerea più sofisticato a disposizione dell’esercito americano, accordato in occasione della visita di Zelensky a Washington, nonché l’invio di carri armati occidentali ad opera di USA, Francia e Germania, più performanti rispetto a quelli di epoca sovietica sinora utilizzati, rafforza le speranze degli ucraini di migliorare sensibilmente le proprie capacità di combattimento.

Non è dato sapere se ciò sarà sufficiente a consentire la vittoria attesa dalle forze ucraine e dalla gran parte del mondo occidentale. Non può essere escluso, seppur non auspicato, che i russi sappiano volgere a proprio favore una situazione prolungata di stallo, consolidando le posizioni acquisite.

È tuttavia interesse e responsabilità degli europei, più di tutti gli altri attori internazionali coinvolti, lavorare nel prossimo anno per essere meglio attrezzati e maggiormente protagonisti nella ricerca di una soluzione alla guerra per una pace equa e duratura. Spetterà agli europei, prima che ad altri, aiutare una popolazione geograficamente e politicamente vicina a ricostruire un territorio devastato dalla guerra. Consapevoli che una prolungata guerra accrescerebbe il rischio di potenziale estensione del conflitto, in minima parte percepito nell’equivoca vicenda del missile russo caduto in territorio polacco, nonché lo spettro di una guerra nucleare.

 

 

  

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