Il 20 agosto 2022, il Presidente Biden ha promulgato il “Chips and Science Act”, una legge che prevede l’erogazione di 52 miliardi di dollari all’industria nazionale dei chip per recuperare una leadership tecnologica americana a serio rischio nei confronti della concorrenza asiatica di Taiwan, Corea del Sud e Cina.

Perché è così importante il mercato dei microchip oggi? Dove vengono prodotti? Da chi e come vengono commercializzati nel mondo?

Questo mercato è da tempo alla base dello sviluppo tecnologico e della produzione. Infatti, la Silicon Valley, dove si sono nel tempo concentrate le produzioni basate sull’impiego dei circuiti elettronici, ha preso il nome del semiconduttore al silicio perché a suo tempo furono il governo e le agenzie federali USA a promuoverne l’impiego nella produzione dei circuiti necessari per la realizzazione dei microprocessori, e quindi dei computer e dei dispositivi di controllo.

Prima dell’avvento dei transistor gli apparati elettronici funzionavano con le valvole termoioniche, cioè dei tubi di vetro sottovuoto con diversi elementi metallici collegabili all’esterno. E fino agli anni Sessanta questi dispositivi venivano impiegati nelle varie apparecchiature elettroniche come i ricevitori e trasmettitori radio, nei televisori, nei primi calcolatori elettronici, e nella telefonia. Ma gli elementi principali nel campo della produzione dei dispositivi elettronici e delle telecomunicazioni successivamente diventarono i componenti semiconduttori, cioè materiali diventati ormai i componenti di base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici a stato solido quali transistor, diodi e diodi ad emissione luminosa (LED). I semiconduttori sono dei materiali, in genere a base di silicio o germanio, contraddistinti da caratteristiche elettriche particolari con proprietà intermedie tra gli isolanti e i conduttori elettrici. Essi sono diventati gli elementi principali nel campo dell’elettronica e per la realizzazione dei microprocessori, a loro volta fondamentali per la produzione di dispositivi alla base del funzionamento di sistemi di controllo, funzionamento e comunicazione praticamente di tutti i dispositivi che utilizziamo ormai nella vita quotidiana, dagli elettrodomestici, alle automobili, ai servizi bancari, alle auto moderne. Mentre i tubi a vuoto contengono dei filamenti metallici, che quando sono attraversati da corrente elettrica consentono la trasmissione e l’amplificazione dei segnali elettrici, i semiconduttori, come il silicio (uno degli elementi più abbondanti della crosta terrestre, dopo l'ossigeno), il germanio, l’arseniuro di gallio ecc. consentono, se opportunamente trattati (in gergo si parla di “drogaggio”) di trasmettere e/o amplificare segnali elettrici per favorire lo scambio di informazioni e/o il controllo di vari dispositivi utilizzati dall’uomo nella vita quotidiana e nei processi produttivi. L’impiego di questi materiali ha in breve reso possibile il passaggio dalla radiotelegrafia alla radiofonia, in quanto il trattamento e l’amplificazione dei segnali elettrici ha reso possibile trasmettere non solo impulsi telegrafici, ma anche voci, suoni, comandi. Ecco, dunque, perché i semiconduttori sono diventati così importanti nelle attività umane, e perché una loro eventuale carenza, o delle difficoltà nel reperirli, trattarli o commerciarli rischia ormai di mettere in crisi interi settori produttivi e commerciali.

Come hanno messo in evidenza la crisi pandemica e le difficoltà di approvvigionamento di alcune materie prime (tra cui in particolare i semiconduttori) e della produzione e distribuzione di gran parte dei beni, il problema principale si manifesta proprio nella misura in cui la fabbricazione di questi dispositivi si è concentrata in poche aree (controllate da poteri nazionali extra europei).

Tuttora, sono le imprese statunitensi a dominare la classifica delle maggiori aziende di chip per quota di mercato. E la Cina spende più denaro per importare circuiti elettronici che per importare petrolio (si veda in proposito Chip war: the fight for the world’s most critical technology, di Chris Miller), al punto di doversi preoccupare più di un eventuale blocco nella trasmissione di bytes che non di un blocco nelle forniture di barili di petrolio!

Un report italiano dell’ufficio studi di Cassa depositi e prestiti (CDP), dedicato proprio alla crisi dei semiconduttori ha pubblicato una tabella che indica le venti aziende produttrici di microchip più grandi al mondo per volume di vendite. E da questo studio emerge che la lista è tuttora dominata dagli Stati Uniti: i primi sei posti della classifica, sono infatti occupati da aziende americane. La leader globale è infatti Intel, con una quota di mercato del 15,4%, poi Samsung (12,6%) e SK Hynix (5,4%), entrambe sudcoreane. Dal quarto all’ottavo posto ci sono ancora le americane: Micron, Qualcomm, Broadcom, Nvidia e TI. L’azienda Infineon, al nono posto, è l’unica europea (sede in Germania), con una quota di mercato del 2,3%, a parità con la taiwanese MediaTek.

Come spiega il rapporto CDP, “le venti aziende leader nel settore a livello globale (escluse le foundries, cioè le fonderie, ovvero le “fabbriche” in cui si producono materialmente i chip, sono localizzate prevalentemente nei Paesi asiatici) generano il 74% delle vendite”: il mercato, dunque, è estremamente concentrato geograficamente per quanto riguarda la produzione. E a loro volta le fonderie realizzano chip su commissione di altre aziende, non europee, che si limitano a progettarli.

Il rapporto CDP considera il processo di produzione dei chip nelle fasi di progettazione, fabbricazione ed assemblaggio.

La fase di progettazione è legata a un capitale umano altamente specializzato ed è tuttora dominata dagli Stati Uniti, che possiedono una quota di mercato del 65%. Sono seguiti da Taiwan (17%) e dalla Cina (15%); l’Unione europea nel suo complesso vale appena il 2%.  

La fase di fabbricazione, vale a dire la realizzazione concreta dei chip, è caratterizzata da un’alta intensità di capitali. Le fonderie sono infatti estremamente costose e sono sostanzialmente controllate da Taiwan, con una quota di mercato del 65%. Seguono Corea del sud (17%), Stati Uniti (8%) e Cina (6 %).

L’ultima fase, quella di assemblaggio, imballaggio e testing dei chip, è caratterizzata da un’alta intensità di manodopera con ridotti margini di profitto. Ma leader di questo segmento è ancora Taiwan, con il 53% del mercato; a seguire Cina (19%) e Stati Uniti (13%).

La delocalizzazione della produzione nelle aree il cui costo della manodopera o dell’energia era nettamente più basso, pur determinando enormi guadagni alla filiera produttiva nel complesso, alla lunga ha impoverito il paese di origine e ha fatto sì che nuovi centri di innovazione si sviluppassero nelle zone di esternalizzazione.

Taiwan, che si è specializzata in investimenti di ricerca e sviluppo nel campo della microelettronica, con l’aiuto di personale formatosi negli USA, con il parco scientifico di Hsinchu è diventata il maggior centro di produzione di microchip, con la quota del 60% del volume totale nel mondo, e il 90% dei chip di punta le cui aziende sono strettamente integrate nella progettazione, nella produzione, nelle attrezzature, test e imballaggio.

Come già detto, la crisi pandemica ha fatto esplodere la domanda di prodotti digitali, facendo emergere la dipendenza mondiale da questa area e provocando interruzioni nella produzione, in quanto il consumo e la commercializzazione dei prodotti finiti è mondiale, mentre la produzione dei componenti è altamente concentrata nell’area asiatica e in particolare a Taiwan.

Non è casuale il fatto che nel vecchio continente le istituzioni hanno incominciato a preoccuparsi di questo problema. 

Chi produce microchip in Europa? La prima società di semiconduttori europea per ricavi è la tedesca Infineon, l’unica europea al nono posto nella classifica mondiale, che nel 2021 ha fatturato 11,5 miliardi di euro (circa 13,1 miliardi di dollari) ed opera in Germania, in Austria e in Ungheria. 

Un prima risposta dell’UE è stata l’iniziativa European High Performance Computing Joint Undertaking partita nel 2018, che ha investito oltre un miliardo di euro per un ambizioso piano di sviluppo e condivisione di tecnologie elettroniche che coinvolge 32 paesi.

Successivamente il NGEU, il fondo di 750 miliardi di euro approvato dal Consiglio europeo nel luglio del 2020 per aiutare, attraverso investimenti, i paesi membri a seguito delle perdite dovute dalla crisi sanitaria, ha destinato oltre il 30% dei fondi europei in prestiti agli Stati per promuovere ed incentivare la modernizzazione della produzione e la sua digitalizzazione basata sui dispositivi elettronici, il cui funzionamento si basa appunto sui semiconduttori. Purtroppo, però, l’efficacia di questo piano dipende da scelte politiche e da bilanci adeguati almeno su scala continentale. 

Cosa succederà al mondo, ma soprattutto all’Europa, se la Cina, come ha già fatto e minaccia di fare, attuerà il blocco nello stretto di Taiwan?

Possiamo permetterci oltre alla crisi finanziaria, alla pandemia, alla crisi energetica prodotta dall’attacco russo all’Ucraina, anche un blocco delle importazioni di microchip che metterebbe a rischio il nostro sistema di vita? Come ha sottolineato la Presidente della BCE nella sesta conferenza annuale dello Europen systemic risk board (Esrb), che a settembre ha lanciato il primo general warning della sua storia, “Pandemia, emergenza energetica, caro prezzi e preoccupazioni per la guerra in Ucraina” sono tra i fattori che causano lo “stato generale di insicurezza” in cui i cittadini del Vecchio Continente vivono ormai da anni. Una serie di sfide che vanno affrontate, aumentando il controllo sulle compagnie finanziarie e guardando a tutte le zone d’ombra dell’economia globale, ivi compresa quella del governo dell’innovazione tecnologica e dei suoi riflessi sull’economia mondiale.

La sola via che ci garantisce il futuro è dunque quella di realizzare una sovranità europea che consenta all’UE di difendere, oltre che i valori, anche i propri interessi.

 

  

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