Se proviamo a fare un bilancio dal punto di vista dell’Unione europea, ad un anno dall’aggressione russa all’Ucraina – mentre la guerra continua ad infuriare con estrema violenza e brutalità, e non si vede ancora all’orizzonte nessuna possibilità di tregua – il quadro che ci troviamo a delineare presenta luci importanti, ma anche tante, troppo ombre.

La guerra ha cambiato radicalmente gli scenari mondiali e ha aperto una nuova fase politica piena di incertezze e di rischi: il mondo rimane fortemente interdipendente, e il commercio globale continua ad essere una componente necessaria per lo sviluppo; al tempo stesso avanza la “deglobalizzazione”, in modo disordinato e pericoloso. Analogamente crescono le tensioni politiche e militari e torna drammaticamente alla ribalta il problema della sicurezza, ma non ci sono né leadership in grado di spingere verso forme necessarie di collaborazione, né istituzioni internazionali capaci di fungere da camere di compensazione per le ostilità crescenti.

In tutto questo, l’Unione europea, pur riuscendo a rimanere unita nel supporto all’Ucraina ed essendo stata capace di passaggi importanti come quello di liberarsi dalla dipendenza energetica da Mosca, non è stata capace di quello scatto in avanti nei settori strategici, incluso in materia di politica estera, di sicurezza e difesa, analogamente a quanto invece aveva saputo fare con la pandemia mettendo in campo il Next Generation EU. E questo nonostante sia in prima linea per quanto riguarda la minaccia ai suoi valori e al suo modello, alla sua sicurezza, e si ritrovi anche a dover fronteggiare la sfida ulteriore dell’allargamento: oltre che ai Paesi balcanici, all’Ucraina stessa – con urgenza –, e in generale agli Stati che facevano parte dell’ex Unione sovietica, che si sentono, con ragione, minacciati dalla Federazione russa e che aspirano alla libertà, alla democrazia, al rispetto dei diritti che si vive in Europa. Ce lo ricordano drammaticamente i manifestanti in Georgia, o le aspettative che sono ormai diffuse in Moldavia. Si tratta innanzitutto di un dovere politico e morale per l’UE, ma che ha anche profonde ragioni geostrategiche, ed è legato alla necessità di creare un solido quadro europeo della sicurezza. Proprio per questo, l’allargamento ha assolutamente bisogno di essere sorretto da un approfondimento dell’integrazione politica che è indispensabile non solo, come molti (giustamente) pensano, per abolire il diritto di veto nel Consiglio e impedire che l’Unione europea resti paralizzata dal crescere del numero e dall’eterogeneità dei suoi membri; ma anche per creare quelle capacità politiche di governo a livello europeo che sono la condizione necessaria per farsi carico delle nuove problematiche di sicurezza tout court diventate ineludibili.

L’UE però, in tutto questo, non sembra cogliere l’urgenza di doversi dotare di strumenti e capacità che ancora non possiede e che nel nuovo quadro globale diventano ormai indispensabili. In questo anno non è progredita per nulla, nella creazione di una capacità autonoma di difesa e sicurezza, nella difesa del sistema manifatturiero, nello sviluppo dell’indipendenza tecnologica. Non si parla ancora di dar vita ad una politica estera in capo a istituzioni europee, e si è divisi sulla necessità di completare l’unione economica o di incrementare il bilancio europeo rendendolo autonomo.

Per tutte queste ragioni, il fatto che – mentre i blindati di Putin un anno fa lanciavano l’attacco e cercavano di dirigersi verso Kiev – gli europei stessero portando a termine i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa rimane una circostanza cruciale. Nella CoFoE si è discusso esattamente di come costruire il nostro futuro di europei. Il fatto che il momento storico suggellato dal ritorno della guerra vedesse in contemporanea l’esercizio di partecipazione democratica della Conferenza, che si è man mano addirittura animato dall’ambizione di farsi processo costituente, ha creato una situazione che ha permesso di incanalare le aspettative diffuse e ha suscitato nuove energie, dando anche notevole slancio al Parlamento europeo. Proprio il PE, infatti, si sta muovendo per dare seguito concreto alle richieste emerse dalla CoFoE, sia con la domanda di avviare un Convenzione per la riforma dei Trattati, sia lavorando ad un rapporto con le proposte di riforma che rispondono alle conclusioni della Conferenza e hanno l’ambizione di cambiare la natura giuridica e politica e dell’UE.

Senza questo passaggio – di natura federale – l’UE resta quello che Stefano Sannino (Segretario generale del servizio europeo per l’azione esterna) spiega nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 26 febbraio, ossia “un’unione di 27 Stati sovrani con 27 Capi di Stato e di Governo, retta da un equilibrio tra le sue diverse istituzioni”. Per questo, sempre secondo Sonnino, a differenza degli USA, “che sono un Paese federale con un governo e un presidente”, l’UE non è in grado di farsi carico della sicurezza del continente europeo, ma deve limitarsi al ruolo di alleato che affianca la potenza leader.

L’UE non può pertanto permettersi di abbandonare il lavoro e lo spirito della Conferenza; anzi, ha assoluto bisogno di usarli per superare le inerzie, le difficoltà, le paure del cambiamento, ben incarnate dal Consiglio – l’organo che, insieme al Consiglio europeo, rappresenta i governi nazionali – che si sta adoperando per boicottare l’aperura di una riforma dei Trattati. La nostra petizione al Consiglio nasce proprio da questo. Come viene ben spiegato nelle pagine interne del giornale, anche sulla base di una mobilitazione dei cittadini che hanno partecipato ai Panel della Conferenza, vogliamo sostenere l’azione del PE, premere perché le proposte di riforma si mantengano ambiziose, e impedire, in collaborazione con i cittadini che hanno animato i lavori della Conferenza, che l’opportunità di cambiare in meglio l’Europa venga affossata. A questo scopo, serve portare nel dibattito pubblico il processo in corso, che la politica a livello nazionale tende ad ignorare, per dargli visibilità e dimostrare – attraverso la diffusione e la raccolta di adesioni a questo semplice appello che chiede al Consiglio di rispettare la volontà dei cittadini e della Conferenza sul futuro dell’Europa – che c’è tutto il potenziale per un grande consenso popolare democratico nei confronti di un’Europa più forte e più democratica.

Pochi giorni fa, sul Financial Times, Martin Wolf spiegava molto chiaramente le ragioni per cui è così necessaria questa nostra campagna. Come si diceva all’inizio, viviamo in un mondo caratterizzato da disordine, nazionalismo e conflitti tra grandi potenze. “Questo” scrive Wolf, “non è il mondo che l'UE sognava. Ma se i suoi leader vogliono preservare il loro grande esperimento di pace, devono rafforzarlo perché regga alle tempeste”. A suo parere, l’Unione europea ha davanti a sé tre opzioni: “A livello globale, deve decidere se vuole essere un alleato, un ponte o una potenza”. Finché gli Stati Uniti rimarranno una democrazia liberale impegnata nell'alleanza occidentale, l'UE continuerà magari a fare l’alleato sottomesso; ma questo rende difficile esercitare un ruolo di “ponte” – che sarebbe naturale per un'entità impegnata nell'ideale di un ordine mondiale governato da regole – perché è difficile esercitare un simile ruolo in un mondo profondamente diviso in cui l'UE è molto più vicina a una parte che all'altra. La terza alternativa è cercare di diventare una potenza classica a sé stante, con risorse dedicate alla politica estera e di sicurezza commisurate alle sue dimensioni. Ma per questo l'UE avrebbe bisogno di un'unione politica e fiscale molto più profonda. La conclusione di Wolf resta che per l’Europa, “quanto più attiva e indipendente vorrà essere, tanto più cruciale sarà approfondire il suo federalismo”.

Questo è esattamente il bivio di fronte a cui ci troviamo: per difendere il nostro modello e restare capaci di esercitare una funzione pacificatrice e stabilizzatrice nel mondo, dobbiamo renderci indipendenti e farci a nostra volta “potenza”, anche se a fini positivi; ma per farlo serve diventare un’unione federale, sul piano politico e fiscale. La posta in gioco in questo processo di riforma dell’UE – che è sul tappeto, ma che troppi fautori dello status quo ancora cercano di nascondere – sono davvero il nostro destino e quello del mondo. Questa consapevolezza ci sia di stimolo per combattere ogni passaggio di questa fase complessa ma cruciale.

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