Alcide De Gasperi fu uno dei maggiori sostenitori del processo di integrazione europea e, in particolare, della Comunità europea di difesa

La via da seguire è nei Trattati, ma è necessario fare un passo in avanti.


L’attuale contesto geopolitico, che vede un possibile ritorno dell’isolazionismo americano a partire dalle prossime elezioni presidenziali, suggerisce un approfondimento sul tema della difesa e sul ruolo che l’Unione europea può assumere. Il lettore attento de L’Unità europea è ben consapevole dell’impossibilità di costituire un esercito europeo senza un’integrazione prima di tutto politica: è solo sotto la veste istituzionale di una federazione, infatti, che possono emergere gli elementi prodromici per un’integrazione anche delle politiche di difesa e, cosa politicamente ancor più complicata, dei dispositivi militari degli Stati membri.

Affinché il progetto di una nuova Comunità europea di difesa non si areni sulle stesse secche del 1954 e non sia la riproposizione stantia dell’UEO, è prioritario mettere correttamente a fuoco il suo obiettivo politico. Se da un lato non è possibile né credibile sovrapporre la nuova Comunità europea di difesa alla NATO, è necessario trovare nei Trattati europei e nelle Costituzioni nazionali il quadro valoriale che ne orienti l’azione. L’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea, nel prefissare l’obiettivo del perseguimento della pace e dei suoi valori, si integra con la tradizione costituzionale degli Stati membri. Si pensi, in primo luogo, al disconoscimento antropologico ancor prima che politico della guerra, proclamato dall’articolo 11 della Costituzione italiana. E il richiamo, della seconda parte dello stesso articolo 11, “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” indica chiaramente un percorso che è stato in gran parte seguito negli ultimi settant’anni, già a partire dall’istituzione della CECA fino alla moneta unica, e che può coerentemente giungere all’approdo di una difesa comune.

Il primo paragrafo dell’articolo 24 del Trattato sull’Unione europea, d’altronde, fa esplicito riferimento a una “definizione progressiva di una politica di difesa comune, che può condurre a una difesa comune”. Una nuova Comunità europea di difesa dimostrerebbe che l’Unione europea non è solo integrazione di mercati, uniformazione di marchi e brevetti, limitazione di produzioni autoctone per impedire crolli di prezzi. Rappresenterebbe, invece, lo sbocco organico della politica estera e di difesa, la PESC, formalmente terzo pilastro dell’Unione già da anni, ma troppo a lungo Cenerentola dell’Unione stessa, scavalcata ora da perduranti e immarcescibili nazionalismi, ora dal ricorso alla tradizionale soluzione “internazionale” e non “federale” rappresentata dalla NATO.

L’ostacolo maggiore, tuttavia, che oggi rallenta il processo di integrazione delle forze armate, e che lo priva di una legittimazione democratica, è il ruolo quasi marginale che il Trattato sull’Unione europea assegna al Parlamento europeo per quanto riguarda la politica estera e di difesa. Come dispone l’articolo 24 del TUE, infatti, “la politica estera e di sicurezza comune è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano – tra l’altro – all’unanimità”. Se non si vuol fare dell’organo di rappresentanza dei cittadini europei una semplice struttura formale, come possono spesso apparire le Assemblee parlamentari della NATO e di altre organizzazioni internazionali, bisogna rivendicare una funzione più incisiva per il Parlamento europeo. Solo in questo modo si possono superare le paralisi in cui incorrono frequentemente il Consiglio europeo e il Consiglio.

Il primo passo per una modifica dei Trattati, nella direzione di una nuova Comunità europea di difesa, non può non essere proprio una riflessione sui ruoli del Parlamento: per giungere ad una vera integrazione, bisogna superare la formula dell’articolo 36 del Trattato sull’Unione europea, “il Parlamento europeo può rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio e all’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”. Le deliberazioni del Parlamento, anche – e soprattutto – in materia di politica estera e di sicurezza, devono avere una valenza cogente per gli organi esecutivi dell’Unione europea.

Di fronte alle inedite sfide cui l’Unione europea è costantemente chiamata negli ultimi anni, si rivela sempre più necessaria una revisione dei Trattati per affermare il ruolo di una nuova CED. Si pensi solo al contributo sul piano logistico e di formazione che un esercito europeo apporterebbe alle operazioni dei caschi blu e delle missioni di pace delle Nazioni unite. È opportuno ricordare sia la presenza -a volte raccogliticcia- dei presidi militari dell’ONU nelle aree più periferiche del pianeta, sia soprattutto la debolezza del quadro ideale e operativo che ha sorretto alcune missioni dei caschi blu: la vergogna della strage di Srebrenica testimonia quanto sia inutile e gravida di tragedie una difesa militare non sorretta dalla tradizione ideale, giuridica e politica rappresentata dall’Unione europea e dalla sua storia.

Al di là dei limiti procedurali, i Trattati europei, come accennato, sono particolarmente sensibili a quelle finalità che rampollano dai documenti delle Nazioni Unite, tanto da riconoscere, ex art. 21 TUE, anche “il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite” quale fondamento dell’azione dell’Unione europea sulla scena internazionale: “Essa promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite”. Questo impegno in sede diplomatica, inoltre, viene rimarcato nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea al Titolo III, “Cooperazione con i Paesi terzi e aiuto umanitario”. Non è soltanto in una prospettiva di mera difesa e sicurezza, dunque, che “l’Unione e gli Stati membri rispettano gli impegni e tengono conto degli obiettivi riconosciuti nel quadro delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali” (art. 208 par. 2 TFUE).

Nel momento in cui un esercito globale appare soluzione non percorribile, lo spirito della Carta delle Nazioni Unite può rivivere solo se incrocia il ricco patrimonio dell’europeismo. La speranza kantiana della pace perpetua diviene concreto progetto politico in una struttura federale che ormai, nonostante la rottura di Brexit o i tanti neoisolazionismi, è un punto di svolta storico irreversibile, come la definì David Sassoli. Ciò significa che una nuova Comunità europea di difesa non può assumere il traguardo del disarmo generale come un’utopia. Lo spirito di Helsinki, recependo l’eredità della Carta delle Nazioni Unite, anima l’Unione europea e la invita a farsi protagonista delle politiche globali di sicurezza in un’ottica non più bipolare ma di integrazione guidata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Una Comunità europea di difesa non sarebbe, quindi, una delle tante modalità attuative del si vis pacem para bellum. In virtù del principio di sussidiarietà, che pur è risorsa che vivifica l’Unione europea e la preserva da derive centralistiche di natura tecnocratica e antidemocratica, il grande potenziale dell’esercito europeo potrebbe essere dispiegato per far fronte alle nuove emergenze del mondo globalizzato. Si pensi alla rete di localizzazione e di tempestivo soccorso nel Mediterraneo, al contrasto alle catastrofi ambientali, provocate dal cambiamento climatico: i tanti “inferni del mondo”, come li definiva Antonio Cassese, interpellano l’Europa, la richiamano al dovere di solidarietà imposto dalla sua storia, ne esigono un’articolazione sempre più attenta della propria struttura istituzionale.

 

  

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