1. Una sfida multi-dimensionale

Le migrazioni rappresentano una sfida per l’Unione Europea da molti punti di vista, talvolta tra loro contraddittori. Il problema maggiore riguarda la percezione sociale di questo processo strutturale – e niente affatto nuovo nella storia dell’umanità – erroneamente vissuto come una “emergenza”, cui quindi si cerca di rispondere con misure tampone e ad hoc, invece che con politiche strutturali.

Le migrazioni sono spesso percepite come cause di una diminuzione della propria sicurezza. Dopo l’11 settembre 2001 questo è stato in parte legato al rischio che tra gli immigrati vi siano dei terroristi. Ma dal punto di vista reale, il dato statistico al riguardo è straordinariamente basso. Dall’altra parte, tale percezione è legata all’idea che gli immigrati possano finire nei circuiti dell’economia illegale e diventare strumenti della criminalità organizzata. Questo secondo rischio è in realtà strettamente legato all’assenza di efficaci politiche di formazione e integrazione volte a inserire gli immigrati nella società e nell’economia. 

Ciò è tanto più grave in quanto i trend demografici indicano con chiarezza la necessità per l’Europa di ricevere immigrati per riuscire a mantenere attivo il proprio apparato produttivo esistente, e assicurare la sostenibilità della propria economia e del proprio modello di welfare, che è assai peculiare. L’UE ha circa il 9% della popolazione, il 18% del PIL e oltre il 50% della spesa sociale mondiale. Questo però pone il tema della gestione degli ingressi, della selezione degli accessi, anche in funzione delle esigenze della società europea. Una tale gestione dell’immigrazione richiederebbe però l’attivazione di canali di accesso legali adeguati. Invece, oggi è quasi impossibile arrivare legalmente in Europa. Questa è la condizione di possibilità del traffico di esseri umani gestito dalla criminalità organizzata. Dal momento che esiste una domanda enorme rispetto al viaggiare verso l’Europa, l’assenza di canali legali permette lo sviluppo di un mercato illegale. Esattamente come il proibizionismo degli alcolici portò allo sviluppo di un florido contrabbando per soddisfare la domanda di alcolici. È il funzionamento del mercato, e nessuno dovrebbe capirlo meglio dell’UE, il più grande mercato del mondo.

Tutto questo pone naturalmente la questione del controllo delle frontiere. Che va inteso sia in negativo, come capacità di contrastare l’immigrazione clandestina. Ma soprattutto in positivo, come capacità di decidere chi far entrare, attraverso canali legali stabili e funzionanti. Ed entrambi sono legati alla capacità ed efficienza amministrativa. Qui sta spesso il tasto dolente, in particolar modo per l’Italia. Ovviamente capacità ed efficienza amministrativa dipendono tanto dalle norme e dalle procedure, quanto dal personale e dalle strutture. Il regolamento di Dublino mette tutto l’onere amministrativo di gestione delle domande d’asilo in carico ai Paesi di primo arrivo, che dunque vanno più facilmente in affanno. Pesano inoltre l’assenza di procedure comuni europee e l’impossibilità per Frontex di intervenire in assenza di una specifica richiesta dello Stato membro interessato. Stati membri che spesso preferiscono non avere aiuto per gestire la situazione con modalità non coerenti con le normative europee, internazionali e nazionali come mostrano i respingimenti fatti dalle autorità greche, o i migranti giunti in Italia messi sui treni per il nord Europa.

Un’altra dimensione della sfida riguarda i valori e il modello di società europei, a partire dal rispetto delle norme nazionali, europee e internazionali relative all’asilo, ai diritti umani e a quelli dei migranti. Accordi per creare centri di detenzione per migranti in Paesi extra-UE sul cui rispetto dei diritti umani è lecito dubitare rappresentano un vulnus gravissimo. Così come il riconoscimento dello status di Paesi sicuri in cui rimpatriare i migranti dato a Paesi in preda a una guerra civile, come ad esempio la Libia. L’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, collegata a una mancata tutela degli standard giuridici, dei diritti umani e dei valori che l’Europa professa sono una contraddizione evidente. Che è infine alla base della diffusione di doppi standard, stereotipi e pregiudizi nelle nostre società, che possono poi alimentare razzismo e islamofobia da un lato, e antisemitismo dall’altro, insieme ad altre forme di discriminazione. 

In Paesi come l’Italia colpisce in particolare l’idea che fosse giusto per gli italiani emigrare alla ricerca di una vita migliore – erano migranti economici, non richiedenti asilo – ma che non sia giusto per il resto del mondo farlo. E addirittura che nemmeno chi fugge da guerre, guerre civili, persecuzioni politiche, religiose, ecc. o dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici abbia davvero diritto all’asilo. Come se il diritto alla vita fosse qualcosa che riguarda noi, ma non gli altri. L’esatto contrario dell’universalità dei diritti umani che l’Europa ha proclamato e difeso. 

Tutto ciò contribuisce a indebolire le nostre società, le libertà, lo stato di diritto e in ultima istanza la democrazia. Così come la percezione diffusa e distorta dei processi migratori come un’invasione che genera pericolo e insicurezza è un fatto di destabilizzazione che può – e viene – sfruttato anche sul piano politico.
 

2. Il fallimento delle risposte nazionali e la necessità di una risposta europea

Gli ultimi decenni hanno mostrato il completo fallimento delle risposte nazionali. Gli Stati di primo arrivo non riescono a gestire i flussi da soli. Né riescono ad ottenere la solidarietà degli altri Paesi favorevoli a risposte nazionali e non europee, come quelli del gruppo di Visegrad, contrari a meccanismi di solidarietà europea vincolanti. Il premier ungherese Victor Orbàn ha sostenuto che l’Ungheria è stata stuprata dall’UE perché il Patto europeo sulle migrazioni prevede forme di solidarietà obbligatorie, comunque diverse dalla redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo.

Nessuno Stato europeo è in grado di stabilizzare l’area di vicinato, e in particolare Africa e Medio Oriente da cui arrivano molti dei flussi migratori. Né è in grado di farlo l’UE per ora, dal momento che manca di una vera politica estera, di sicurezza e difesa, oltre che di una capacità fiscale indispensabile per finanziare un grande piano di sviluppo. Eppure avremmo tutto l’interesse a farlo. Spesso nel dibattito pubblico viene citata l’idea di un Piano Marshall europeo per l’Africa. Dimenticando che il Piano Marshall aveva 2 gambe: i finanziamenti erano legati all’accettazione di basi militari americane sul proprio territorio. Senza questo non poteva esservi certezza sulla stabilità del regime politico (democratico) ed economico (economia di mercato) di un Paese e non si poteva certo investirvi massicciamente. Allo stesso modo oggi inviare fondi in un Paese dilaniato dalla guerra civile, significherebbe solo contribuire ad armare le varie milizie, non migliorare la sorte degli abitanti o innescare processi virtuosi di sviluppo economico. Peraltro, nel quadro della transizione energetica, la produzione di energia pulita in Africa per il proprio sviluppo e per l’Europa è essenziale. 

Ecco perché per affrontare efficacemente la sfida delle migrazioni non è sufficiente una politica europea delle migrazioni, relativa soltanto al controllo delle frontiere, all’armonizzazione delle procedure d’asilo piuttosto che delle politiche di formazione e integrazione. Serve anche dotare l’Unione di una politica estera, di sicurezza e difesa, di una politica fiscale, di una politica energetica. In sostanza, serve l’unione politica, con un governo federale responsabile delle politiche europee necessarie ad affrontare questa sfida, così come a garantire i beni pubblici europei richiesti dai cittadini, come la sicurezza, la difesa, lo sviluppo economico, la transizione ecologica. 

La proposta di riforma dei Trattati approvata dal Parlamento europeo va in questa direzione. Resta da vedere se i governi nazionali riuniti nel Consiglio europeo convocheranno – con una decisione a maggioranza semplice – una Convenzione di riforma dei Trattati per lavorare sulla proposta del Parlamento e dare risposta alle richieste dei cittadini europei.

 

  

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