Altiero Spinelli, La mia battaglia per un’Europa diversa, a cura di Guido Montani, Edizioni Società Aperta, Milano 2024
In occasione della sua candidatura alle prime elezioni europee a suffragio universale diretto - da indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano - Altiero Spinelli pubblicava nella primavera del 1979 con l’editore Lacaita il volume La mia battaglia per un’Europa diversa - ora meritoriamente riproposto su iniziativa di Guido Montani con una sua illuminante introduzione.
Il libro - di cui pubblichiamo qui di seguito un estratto della prefazione di Spinelli – raccoglieva alcuni saggi sparsi che rimessi in fila riepilogavano la sua lunga battaglia per l’unificazione europea, da Ventotene all’esperienza di Commissario europeo.
A scorrerne i titoli prende corpo tutta la concretezza e attualità della visione spinelliana per la costruzione di un’Europa diversa: lo sviluppo industriale e del problema ecologico; l’unione economica e monetaria; lo sviluppo del Terzo Mondo; un programma d’azione per l’aeronautica europea; come fare l’Unione Politica Europea. C’è persino una risposta - già comparsa su Le Monde nel febbraio del 1977 - a Jean-Paul Sartre, il quale sullo stesso giornale aveva invitato il Partito Socialista francese ad affossare l’approvazione del progetto di elezioni europee dirette. Esse venivano ridotte dal grande filosofo francese a mero strumento di legittimazione di una supposta Europa ad egemonia germano-americana al servizio dei grandi capitali. Al contrario, per Spinelli le elezioni europee costituivano l’occasione per l’avvio di una vera e propria democrazia federale europea, da compiersi attraverso la strategia del metodo costituente.
“Nell’estate del 1941, nel momento in cui Hitler aveva abbattuto e sommerso con la sua orda pressoché tutta la vecchia Europa degli stati-nazione sovrani, dai Pirenei alla Vistola, da Creta a Narvik, dalle bocche del Danubio alla Manica, e passando di vittoria in vittoria si riversava nelle pianure russe in direzione di Mosca, finivo di discutere con Ernesto Rossi e redigevo quasi di getto quello che sarebbe stato più tardi chiamato il «Manifesto di Ventotene», e che parlava di un’Europa libera e unita da costruire dopo la sconfitta di Hitler. Ero allora nel mezzo del cammin di nostra vita, nel più preciso senso dantesco di questa espressione, cioè non solo fisiologicamente per il fatto di avere 34 anni, ma anche perché la redazione del Manifesto costituì la cesura fondamentale della mia vita. Tutto quello che avevo fatto, pensato, subito fino a quel momento si riduceva a mia preistoria, la mia storia vera e piena essendo quel che da allora ho cominciato a pensare, a dire, a scrivere, a fare, a subire. Il filone in cui mi ero imbattuto e la cui scoperta mi aveva esaltato, era così ricco e si addentrava così meravigliosamente e imprevedibilmente nel terreno della realtà, che dopo quasi quarant’anni non ho ancora terminato di scavarci.
Due fra le idee contenute nel Manifesto di Ventotene riconosco come le più mie e ad esse mi sono attenuto con fedeltà. La prima è che il compito di realizzare l’unità europea non spetta a un’imprecisabile generazione di un imprecisabile futuro – che, con l’unica eccezione di Coudenhove-Kalergi, era stata l’opinione costante di tutti coloro che nel passato avevano pensato all’unità europea – ma spettava alla nostra generazione e che mi sarei quindi impegnato per essa d’ora innanzi, come al compito centrale della mia vita politica. La seconda idea era che la linea di divisione fra forze di progresso e forze di conservazione non sarebbe più stata quella tradizionale fra sinistra più o meno socialista e destra più o meno liberale, ma quella nuovissima fra chi si sarebbe proposto di adoperare il potere di cui avesse disposto per promuovere l’unificazione europea e chi per promuovere la restaurazione della sovranità nazionale; che avrei quindi mantenuto un atteggiamento di indipendenza da qualsiasi partito nazionale, ma che mi sarei impegnato accanto a chiunque si fosse schierato o avessi in qualche modo potuto indurre a schierarsi sulla linea di battaglia politica sulla quale mi trovavo io per l’Europa.
Avventurandomi con questa bussola nel mare aperto della vita politica, dopo sedici anni di prigionia, fondai a Milano nell’agosto del 1943 il Movimento Federalista Europeo; suscitai, ancor durante la guerra, i primi convegni federalisti a Ginevra nel ’44 e a Parigi nel ’45; partecipai alla Resistenza per consolidare il nesso fra essa e la lotta per l’Europa; animai la propaganda federalista in Italia e in Europa, criticando duramente l’impostazione limitata, moderata, funzionale che alla costruzione europea stavano dando gli statisti francesi, italiani, tedeschi, belgi, olandesi, nei primi anni ’50, ma fui pronto a sviluppare rapporti di collaborazione con loro quando mi riuscì di convincere prima De Gasperi e Spaak, poi, attraverso loro, gli altri statisti europei, della necessità di andare oltre le cosiddette comunità specializzate, carbosiderurgica e della difesa, verso la creazione di un’autentica Comunità politica.
L’alleanza durò poco e, naufragato insieme alla CED il progetto di Comunità politica, che era sembrato ad un certo momento così vicino a realizzazione, cercai, nella seconda metà degli anni ’50, di suscitare con il Congresso del Popolo Europeo e con le sue elezioni primarie in varie città d’Europa un movimento che fosse di opposizione ai rimanenti nazionalismi e ad un’unità fatta dai governi, debole, e non democratica, e di promozione di un’unità fatta dal popolo. Ma il movimento si inaridì quando, essendo nata la Comunità economica europea, sembrò che la via maestra della costruzione del nuovo ordine europeo fosse proprio quella da noi criticata del lento coagularsi di interessi economici concreti intorno alle amministrazioni sovranazionali delle Comunità. […] Quando nel giugno ’76 il PCI mi portò con i voti dei suoi elettori nel Parlamento italiano e poi in quello europeo, ciò apparve quasi uno scandalo a molti che, pur europeisti, non si rendono conto che per costruire una unità europea vera e diversa da quel coacervo di mezze istituzioni e di mezze politiche che è purtroppo l’Europa attuale, è necessario da una parte il più largo contributo positivo di tutte le più importanti forze politiche democratiche dei nostri paesi, ma d’altra parte è necessario, per non dire urgente, diminuire il peso delle forze più conservatrici, più inclini a voler mantenere quel che c’è e contentarsene, ed accrescere il peso delle forze politiche che più vigoroso sentono l’impulso a rendere le cose più giuste, più oneste, più efficaci. Nel Parlamento europeo, insieme ai colleghi italiani del gruppo comunista, ho agito per tre anni in questo senso. L’elezione europea e il Parlamento che ne risulta costituiscono un nuovo capitolo della straordinaria avventura europea, per me con ogni probabilità l’ultima, per coloro che vengono a dare il cambio alla mia generazione il primo capitolo della nascita, piena d’incertezze, di pericoli, di speranze della democrazia federale europea.”