Cosa si muove nel campo e fuori dal campo. In attesa delle presidenziali USA di novembre, nella continua attesa che l’UE si decide a costruire una difesa comune.

Sono trascorsi novecento giorni dall’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia: un evento che ha segnato la fine di molte illusioni nate dopo la caduta del Muro, riportandoci indietro a epoche in cui la forza era il normale metodo di risoluzione delle controversie. Nessuno sa esattamente come potrebbe concludersi questa guerra di ricolonizzazione; ma quello che dovremmo aver compreso è che il suo esito è destinato a disegnare un bel pezzo del nostro futuro e delle nostre democrazie liberali, della sicurezza e della prosperità dei cittadini europei.

Oggi la Russia preme lungo i mille chilometri della linea del fronte e continua a colpire città e infrastrutture civili in tutta l’Ucraina. L’esercito di Kyiv è sotto pressione, spesso in inferiorità numerica e costretto a razionare le munizioni. Mentre il sostegno degli alleati mostra qualche crepa dovuta alla paura di un lungo conflitto, Putin ha sfruttato lo stallo dell’assistenza militare occidentale per incrementare i bombardamenti, ha velocemente riconvertito la Russia in una economia di guerra e può tollerare enormi perdite umane senza timore di dissensi interni, che nel frattempo sono stati quasi completamente neutralizzati.

Tuttavia gli analisti concordano sul fatto che, nonostante i progressi compiuti, l’esercito russo non sembra avere forze adeguate per uno sfondamento. Il nuovo pacchetto di aiuti militari deciso dal Congresso americano insieme all’impegno della Nato (con la consegna all’Ucraina degli F16 e dei sistemi di difesa Patriot) e a quello della Ue (tra cui il trasferimento di 1,5 miliardi di euro derivanti dai proventi dei beni russi immobilizzati, mentre al momento l’uso di ulteriori fondi dello European Peace Facility è ancora bloccato dal veto ungherese) dovrebbero incrementare la capacità di difesa di Kyiv, anche se difficilmente saranno sufficienti per sostenere una prolungata controffensiva. Quella lungo il fronte è diventata una guerra di logoramento.

Ma la situazione sul campo non è l’unica incognita. C’è anche l’esito delle prossime elezioni negli USA a rendere incerto il futuro. La candidatura di Harris ha riaperto la partitama una eventuale rielezione di Trump porterebbe con sé la tentazione di una politica isolazionista, che consideri ciò che avviene in Europa un problema esclusivamente per gli europei. L'ex presidente ha dichiarato di poter fermare la guerra con una telefonata, ma non si è capito bene come. Se la leva nei confronti degli ucraini può essere quella del ritiro degli aiuti militari, non è chiaro come potrà esercitare pressione nei confronti di Putin per favorire un negoziato.

La sensazione è che Trump abbia come obiettivo quello di un cessate-il-fuoco senza però sapere come ottenere una pace giusta e duratura. Alcune fonti di informazione hanno riportato indiscrezioni di un piano fatto dalla cessione definitiva di territori alla Russia e dalla garanzia di non espansione della Nato in cambio di ingenti aiuti economici (e forse militari) per la ricostruzione dell’Ucraina. Una soluzione che presenta diversi problemi: quello di un sostanziale condono delle violazioni dei confini riconosciuti a livello internazionale, quello relativo alla probabile contrarietà dell’Ucraina ma anche di altri Paesi dell’est europeo - che non hanno alcuna intenzione di trasformarsi in stati cuscinetto a tutela di terzi - e infine la mancanza di una garanzia futura di non ripresa delle ostilità da parte russa.

Sullo sfondo sta ancora la scarsa comprensione della natura di un conflitto che non è inquadrabile come una semplice disputa regionale ma che riguarda invece il futuro della sicurezza europea e quindi l’ordine internazionale; e della natura di un Paese come la Russia per il quale la sottomissione dell’Ucraina non è certo l’obiettivo finale, ma il presupposto dell’affermazione delle proprie ambizioni di potenza imperiale.

L’intreccio composto dall’incerta situazione sul campo e dall’incognita delle prossime elezioni negli USA ha plasmato gli esiti di alcuni eventi di cui molto si è parlato nelle ultime settimane. A cominciare dal G7 di giugno e del vertice Nato di luglio dove, anche per evitare che un ritorno di Trump alla Casa Bianca possa portare a ripensamenti e indebolire la causa ucraina, sono stati presi impegni a lungo termine: un prestito di 50 miliardi garantito dai profitti degli asset russi congelati e la conferma del sostegno militare nel quadro di un processo di adesione all’alleanza definito “irreversibile”.

Per proseguire con l’apertura di Zelensky alla partecipazione di Mosca (che al momento non ha risposto) alla seconda conferenza di pace in programma a novembre. È la prima volta che il presidente ucraino propone l’idea di discutere con la Russia senza previo ritiro russo dal suo territorio. Su questa scelta pesano più fattori. Certo, una situazione sul campo critica e che non sembra indicare una via d’uscita a breve e la “stanchezza” per un conflitto distruttivo che ha inflitto grandi sofferenze alla popolazione ucraina. Ma anche un calcolo preciso: quello di provare a riprendere l’iniziativa diplomatica alle proprie condizioni e prima che lo facciano altri, considerato che un eventuale cambio al vertice negli Stati Uniti potrebbe portare a un atteggiamento diverso verso il conflitto. E infine la volontà di non apparire come ostacolo ad un eventuale negoziato, costringendo in questo modo la Russia – che per pace ha sempre e solo inteso una irricevibile resa incondizionata dell’Ucraina – a scoprire le carte.

Anche la recente e sorprendente incursione ucraina in territorio russo – azione legittima secondo il portavoce della Commissione UE – potrebbe costituire una mossa da mettere sul piatto di future trattative di pace. Sugli obiettivi e sulla sostenibilità dell’iniziativa a lungo termine restano dubbi: potrebbe trattarsi di un’azione diversiva per alleggerire la situazione nel Donbass o del tentativo di colpire alcuni obiettivi militari anche se l'elemento più rilevante per il momento consiste nell’occupazione della cittadina di Sudzha, stazione di transito del gas che la Russia esporta verso l’Europa. Nel frattempo, è impossibile non notare come l’effetto principale sia quello psicologico. Sono emerse falle nella sicurezza che hanno indebolito l’immagine del presidente russo e portato il conflitto all’interno dei confini russi: il costo politico della guerra sta crescendo anche per Putin.

Qualunque sia la direzione che prenderà il conflitto, agli europei resta il fatto di non poter più eludere il problema delle politiche di difesa. Se l’impegno finanziario degli europei a sostegno dell’Ucraina non è mai mancato (lo strumento dello Ukraine Facility garantisce prestiti e sovvenzioni per 50 milioni di euro fino al 2027), la sicurezza dello spazio europeo finora è stata sostanzialmente garantita dagli USA. In un futuro nemmeno troppo lontano, però, l’Europa potrebbe doversi assumere appieno le proprie responsabilità e affrontare autonomamente la sfida. Per l’UE è arrivato il momento di accelerare il cammino verso la difesa comune. 

 

  

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