Hannah Arendt

In più di due secoli di storia, le istituzioni degli USA si sono rafforzate superando notevoli sfide. Sapranno resistere alle prossime?

In più di due secoli di storia, le istituzioni degli USA si sono rafforzate superando notevoli sfide. Sapranno resistere alle prossime?

Il libro di Hannah Arendt Sulla rivoluzione ha suscitato molte polemiche per la famosa contrapposizione tra la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese: la prima capace, dopo la liberazione dal dominio coloniale, di instaurare con la Costituzione di Filadelfia un nuovo ordine politico fondato sulla libertà, sullo Stato di diritto, sulla divisione dei poteri e della sovranità; la seconda precipitata, dopo l’abbattimento dell’Ancien Régime, in un nuovo dispotismo basato sulla violenza. Meno noti sono gli avvertimenti che la Arendt rivolgeva al Paese che l’aveva accolta e che aveva dimenticato le origini rivoluzionarie per farsi promotore dello status quo contro ogni progetto di liberazione: “In una situazione internazionale che contrappone la minaccia di totale distruzione attraverso la guerra alla speranza di emancipazione di tutta l'umanità attraverso la rivoluzione - portando un popolo dopo l'altro in rapida successione ‘ad assumere fra le potenze della terra la posizione separata ed eguale a cui hanno titolo per le Leggi della Natura e del Dio della Natura’ [Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, NdR] - non resta altra causa se non la più antica di tutte, quella in realtà che fin dal principio della nostra storia ha determinato l'esistenza stessa della vita politica, la causa della libertà contro la tirannide.”

Gli USA non facevano, in realtà, che obbedire alla ferrea logica della subordinazione alla ragion di Stato di tutti i valori universalistici astrattamente predicati e sostenuti. Tuttavia, finché un regime rimane nel solco della liberal-democrazia, la dialettica tra l’universalismo dei principi ed il bieco opportunismo degli interessi nazionali non può essere cancellata, come avviene invece nei regimi autocratici. Ne sono una testimonianza, da un lato, il forte impulso che gli Stati Uniti hanno dato alla nascita e allo sviluppo  delle organizzazioni multilaterali e allo stesso processo di integrazione europea; dall’altro, il sostegno a regimi illiberali o a colpi di Stato, per non parlare di alcune guerre la cui sola giustificazione stava appunto negli interessi americani.

Con la fine della guerra fredda e dell’URSS, avvenute durante la presidenza di Bush Sr., si andò affermando la dottrina, formulata inizialmente da Paul Wolfowitz, secondo cui gli Stati Uniti erano l’unica potenza capace di garantire l’ordine mondiale. Naturalmente tra affermare il proprio diritto all’egemonia mondiale ed essere in grado di esercitarla corre una bella differenza. Non può esistere, infatti, un equilibrio statico in un sistema per sua natura dinamico com’è la storia umana. Non basta, quindi, voler impedire l’ascesa di nuove potenze perché il desiderio si realizzi. L’illusione monopolare si sfaldò già durante la presidenza di Bush Jr., che ne era divenuto il principale corifeo.

La presidenza Obama, segnata dal mancato intervento in Siria, dall’accettazione di fatto dell’annessione manu militari della Crimea da parte della Russia e dal programma riassunto nello slogan “Pivot to Asia”, rappresentò la presa d’atto della nuova situazione mondiale. Proprio in quegli otto anni si crearono però le premesse per una svolta gravida di conseguenze in quella che si suol definire l’America profonda. In 220 anni gli USA avevano avuto presidenti di origine inglese, gallese, scozzese, irlandese, tedesca e olandese. Mai un latino, mai uno scandinavo, mai uno slavo. Inaspettatamente un giovane senatore di origine afroamericana giungeva alla Casa Bianca. Prima ancora che vi entrasse, vi fu chi negò che ne avesse diritto, diffondendo la falsa notizia che non fosse nato sul suolo americano. Le proteste del Tea Party ed il ritorno di fiamma dei suprematisti bianchi finirono per influenzare profondamente il Partito repubblicano, fino ad impedire la formazione di maggioranze bipartisan nel Congresso. Si arrivò così a quella polarizzazione della società e della politica che trovò la sua massima espressione nella elezione di Trump alla presidenza.

Il decimo saggio de Il Federalista inizia con una ben nota affermazione: “Tra i molti vantaggi offerti da una solida unione, nessuno merita di essere più accuratamente esaminato di quello rappresentato dalla tendenza di essa a spezzare e a controllare la violenza delle fazioni.” Per più di due secoli fu confermato dai fatti l’argomento usato da Madison per suffragare quella tesi: “L’influenza di capi faziosi può appiccar fuoco nei loro Stati, ma non sarà in grado di provocare, attraverso tutti gli altri, una conflagrazione generale.” I terribili eventi del 6 gennaio 2021, sicuramente incoraggiati dal presidente sconfitto, rivelarono al mondo intero che nemmeno una federazione di dimensione continentale e che da più di un secolo si ergeva a guida del mondo libero era in grado di proteggere e garantire quelle che i Padri Fondatori chiamavano le libertà repubblicane. Per certi aspetti, come è stato detto, era un altro Muro di Berlino che crollava.

Lo scorso anno scrivevamo su queste pagine che la crisi sta investendo ora anche gli Stati di dimensione continentale.  Acemoğlu e Robinson hanno dimostrato in un libro degno di nota che la solidità e la forza di uno Stato dipendono anzitutto dalle sue istituzioni. Gli Stati Uniti sono stati in grado, passando anche attraverso una sanguinosa guerra civile, di accrescere lo straordinario capitale istituzionale codificato nella Costituzione attraverso una serie di emendamenti e di provvedimenti che hanno via via aggiunto un Bill of rights, esteso il diritto di voto, permesso l’allargamento a molti nuovi Stati, abolito la schiavitù, garantito l’elezione diretta dei senatori, promosso elezioni primarie per la scelta dei candidati alle principali cariche statali e federali, per non citare che i più rilevanti. Negli ultimi decenni si è tuttavia affermata una corrente giuridica che è arrivata ad influenzare profondamente la maggioranza dei giudici della Corte Suprema: l’originalismo. Senza entrare in un dibattito giuridico per il quale non abbiamo titolo, importa qui rilevare che questa visione della Costituzione per cui essa “è solo il suo testo”, e si deve quindi risalire all’intento originale dei costituenti e al significato che le parole avevano quando furono usate, è posta al servizio di un disegno restauratore e finanche reazionario che impedisce alla Costituzione di essere quell’organismo vivente che si evolve, pur senza essere stravolto, per rispondere alle esigenze dei tempi.

Ora, è certo che persino nell’elezione e nel funzionamento delle più importanti istituzioni americane vi sono aspetti perlomeno discutibili. Fa pensare, ad esempio, che per due volte nel primo ventennio del nostro secolo due presidenti siano stati eletti nonostante la maggioranza dei voti popolari sia andata all’altro candidato. Fa ugualmente pensare che nel Senato siano possibili maggioranze che non rappresentano che il 30 % dei cittadini. Fa infine pensare che il notevole allungamento della vita media abbia finito per determinare nella Corte Suprema la presenza di giudici eletti in un’altra epoca storica, senza dire quanto il metodo dell’elezione abbia minato negli ultimi tempi l’indipendenza della stessa Corte a causa dell’attuale polarizzazione politica.

Non saranno certo le elezioni del 5 novembre a tagliare questi nodi. Si può però fare qualche considerazione già prima di conoscerne i risultati. La rinuncia di Biden ed il ricompattamento del Partito democratico attorno alla candidatura di Kamala Harris stanno a dimostrare che la democrazia americana corre dei gravi rischi, ma ha anche inaspettate capacità di reazione e di mobilitazione. Il fatto di dover occuparsi dei problemi del mondo assicura pur sempre un confronto sulle grandi opzioni per il futuro. Per questo, equiparare il nazionalismo americano al nazionalismo europeo è un’operazione da compiere con circospezione. In un suo recente editoriale Sergio Fabbrini ha giustamente osservato che il trumpismo ha una forte impronta antiistituzionale ed antigovernativa, mentre il nazionalismo europeo è di solito statalista ed antieuropeista.

In secondo luogo, è bene guardarsi da un’illusione che serpeggia anche nelle nostre file, nutrita dalla speranza che una seconda vittoria di Trump costringerebbe gli europei a marciare velocemente verso una maggiore condivisione della sovranità, in particolare nel campo della politica estera e della difesa. Due precedenti dovrebbero servire da avvertimento: la facilità con cui gli USA riuscirono a dividere gli europei al tempo del secondo attacco all’Iraq; il nulla di fatto o quasi durante i 4 anni della presidenza Trump, nonostante il Tycoon non si facesse certo scrupoli ad attaccare la NATO, a pretendere l’aumento delle spese militari, ad instaurare buoni rapporti con Putin sopra le nostre teste. È facile immaginare come il suo ritorno alla Casa Bianca sarebbe accompagnato dalla fila dei questuanti europei col cappello in mano in cerca di protezione e dai cori osannanti dei nazionalisti di casa nostra.

 

  

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