Mario Draghi dedica, all’interno del suo rapporto sulla competitività europea, un intero capitolo riguardo al tema della difesa. Una questione che come ben sappiamo ha un peso cruciale sul futuro dell’Unione, soprattutto in virtù dello scenario internazionale che, dall’invasione russa in Ucraina nel 2022, ha mostrato come le minacce alla nostra sicurezza non sono più trascurabili.

Nel report si evidenzia in primo luogo come il settore della difesa può essere trainante per l’economia e l’innovazione, con ricadute concrete su molti settori civili. La storia ce lo dimostra con gli esempi più classici, quali l’invenzione di internet o del GPS. Tuttavia, appare evidente come l’industria della difesa europea è oggetto di diverse debolezze strutturali, da Draghi esposte.

Innanzitutto, come si può ben immaginare, vi è un’insufficiente spesa pubblica sul settore. Basti pensare che l’intera spesa degli Stati membri non arriva ad un terzo dei fondi che gli Stati Uniti allocano sulla difesa. Non si tratta però solo di un mero discorso di quantità, ma anche di qualità della spesa. Quando parliamo di spese per il settore militare, infatti, dobbiamo isolare le spese per ricerca e sviluppo, dove l’UE risulta estremamente carente, soprattutto rispetto alla controparte statunitense. Parlando in valori assoluti, gli Stati Membri investono circa € 10,7 mld l’anno in R&D, una cifra che impallidisce di fronte ai $ 140 mld spesi invece dagli USA, che ne fanno la loro principale voce di spesa nel settore.

Altri due aspetti critici evidenziati dell’ex premier, tra loro interconnessi, sono la grave carenza di standardizzazione e la troppa frammentazione dell’industria militare europea. Il fatto che ogni Paese ragioni – a meno di progetti specifici – in modo indipendente ha portato ad un tessuto industriale ripetitivo, inefficiente e incapace di costruire economie di scala. Questo ovviamente si ripercuote anche a livello di standardizzazione della produzione, con l’UE che si trova ad avere a disposizione, per una stessa categoria di materiale bellico, decine di versioni diverse. Le conseguenze sono problemi a livello di approvvigionamento, manutenzione e pezzi di ricambio, ma anche supporto. Basti pensare che questa criticità è divenuta lampante in ottica del sostegno militare all’Ucraina. Gli Stati membri hanno fornito, solo per i colpi di artiglieria da 155mm, ben dieci versioni diverse degli stessi, con tutte le conseguenze negative, a livello pratico e organizzativo, che ciò comporta.

Un ultimo aspetto critico, che ha valenza quasi più politica che strettamente industriale, riguarda l’alto livello di dipendenza da soluzioni militari non europee, specialmente verso gli Stati Uniti. Gli Stati membri si trovano infatti a fare largo affidamento per le loro forniture su materiale bellico di produzione extra-europea, quando basterebbe poco per adeguare le nostre linee di produzione alle esigenze che abbiamo. In alcuni casi addirittura già esistono controparti europee, le quali però non vengono scelte per motivi economici, di abitudine e di presunta maggiore affidabilità. Parlando di numeri, basti pensare che nell’ultimo anno le nazioni europee hanno speso $ 75 mld per l’acquisto di materiale bellico: di questi il 78% è stato speso per forniture extra-europee ed il 63% per forniture di produzione statunitense. 

Si tratta in conclusione di una serie di criticità evidenti, che Mario Draghi mette a disposizione della Commissione Europea. Andando ad esporre inoltre gli obiettivi strategici da raggiungere, con l’intento di risolvere queste debolezze ed alzare il livello e l’integrazione dell’industria militare europea, tendendo sul lungo periodo a raggiungere standard simili a quelli statunitensi. Tuttavia –  e questo Draghi lo fa capire in modo netto nel suo report – il vero problema centrale è la mancanza di una forte volontà politica che spinga verso la direzione della difesa comune europea, nonostante a parole quasi tutti si spendono a favore della stessa.

 

  

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