Dal 24 febbraio 2022, i Paesi europei ancora non hanno imparato la lezione: per garantire la sicurezza, servono passi in avanti, e non c’è tempo da perdere.

Da tre anni l’Ucraina sta subendo l’aggressione militare russa, con una tragica sequela di morti e distruzioni. Si combatte su un fronte di oltre un migliaio di km, con modalità che ricordano la Prima guerra mondiale e mezzi che ci proiettano nel futuro dell’intelligenza artificiale. Si combatte sul fronte interno, per difendere infrastrutture e popolazioni da quotidiani attacchi portati da missili balistici a corto e medio raggio, bombe plananti e autopropulse, droni di varie dimensioni e capacità: anche in questo caso tattiche utilizzate durante la Seconda guerra mondiale con mezzi sofisticati di ultima generazione.

Atteso che quanto sta accadendo ci riguarda direttamente a prescindere dalla distanza fisica dal fronte di guerra, se non come singoli Paesi come Stati membri dell’Unione Europea (art. 42.7 del Trattato di Lisbona), la domanda che ci dobbiamo porre è se e quanto siamo preparati ad affrontare simili eventualità. La risposta non è confortante: pur se nel loro insieme i membri dell’UE spendono annualmente per la difesa quasi € 300 miliardi, le capacità militari esprimibili sono ridotte, a causa della eterogeneità dei sistemi d’arma, risultato di un sistema industriale frammentato, del tutto antieconomico, e della mancanza di un’adeguata struttura integrata di panificazione, comando e controllo. Deve essere ben chiaro che il problema immediato non è quello della creazione di un unico strumento militare europeo, che verrà in un futuro da definire, ma di potere impiegare razionalmente e organicamente le risorse che i singoli Stati si impegnano a mettere a disposizione, esattamente come fa la NATO, che non dispone di forze proprie (con l’eccezione dei velivoli di allerta radar e di quelli del trasporto strategico), ma è in grado di impiegare efficientemente le unità nazionali, grazie alla propria catena di comando e controllo.

A monte rimane irrisolta la questione della direzione politica, che in caso di operazioni militari non può certamente essere lasciata alla ritualità del Consiglio Europeo, con il relativo potere di veto di ciascuno degli Stati membri. In estrema sintesi occorre uscire da questa situazione di inefficienza decisionale, e se non lo si può/vuole fare a 27, occorre avviarsi verso quell’Europa a più velocità, già attuata per Schengen e per la moneta unica, utilizzando in modo determinato lo strumento già disponibile nel Trattato, il già citato art. 47, con l’esplicita previsione di Cooperazioni Strutturate Permanenti.

"Un attacco come quello scatenato due volte dall’Iran contro Israele avrebbe causato nei nostri Paesi decine di migliaia di morti.”

Ma tornando alla questione strettamente operativa, occorre osservare che tra le carenze spicca quella della mancanza di un adeguato sistema di difesa aerea contro attacchi missilistici: un attacco come quello scatenato due volte dall’Iran contro Israele avrebbe causato nei nostri Paesi decine di migliaia di morti. Secondo una recente valutazione la protezione oggi assicurata copre non più del 5% delle esigenze. Al riguardo, su iniziativa tedesca, è stato proposto il programma European Sky Shield Initiative (ESSI), che si basa peraltro su sistemi non prodotti in Europa: il Patriot USA e lo Arrow 3 israeliano.

Quello degli approvvigionamenti da fornitori esterni all’Unione è un fenomeno costante, destinato a permanere: ad esempio il Paese che sta attuando un grande sforzo per migliorare le proprie capacità militari, la Polonia, sta acquisendo dagli USA 250 carri Abrams e 180 carri K2 Black Panther di produzione coreana (con un ulteriore accordo di produzione su licenza) e alcune stime fanno ammontare a oltre il 60% la spesa per gli approvvigionamenti dei Paesi europei al di fuori dei confini dell’UE. Si tratta di un fenomeno strutturale, con motivazioni anche economiche: proprio per la frammentazione del sistema produttivo, anche a parità di prestazioni i sistemi d’arma prodotti in Europa sono sempre più costosi di quelli USA: un F35, velivolo di quinta generazione, oggi ha un costo unitario di $ 80 milioni, a fronte di un Eurofighter che costa circa € 110 milioni. Per non parlare del fatto che la proliferazione dei modelli (12 carri diversi in servizio in Europa!) crea problemi e costi assai significativi per il supporto logistico.

Altre carenze che rendono i Paesi europei dipendenti dal supporto operativo offerto (a che prezzo e con quali garanzie?) dagli USA riguardano i sistemi spaziali di comunicazione, sorveglianza, intelligence per i quali le capacità europee, pur non insignificanti, non sono certamente sufficienti. La recente polemica circa l’eventuale ricorso a Starlink ha messo in evidenza le carenze europee nel settore delle comunicazioni satellitari a bassa latenza, necessarie alla gestione operativa dei moderni sistemi d’arma: c’è un progetto europeo, il programma IRIS, che richiederà non solo tempi lunghi, ma anche risorse finanziarie che i Paesi stanno faticosamente centellinando.

In estrema sintesi, le incertezze del quadro strategico, con un’Amministrazione USA che sta mettendo in discussione i principi a fondamento della solidarietà transatlantica, le tragiche vicende dell’aggressione all’Ucraina, le situazioni conflittuali in Medio Oriente e le incertezze del quadrante Mediterraneo sono tutti ineludibili indicatori che l’Unione Europea deve fare un salto di qualità nella propria postura. Si tratta di un’analisi ormai condivisa per affrontare la quale già sono stati autorevolmente individuati i passi da compiere. Nel suo documento sulla competitività Draghi è esplicito: servono risorse e serve volontà politica, e non c’è tempo da perdere. 

 

  

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