“Se [il politico] ha una morale, questa morale è, come dirà quattro secoli dopo Max Weber, la morale della responsabilità.”

Vi proponiamo alcuni estratti da un saggio di Mario Albertini sulla politica, consultabile interamente sul sito web della Fondazione Albertini (Tutti gli Scritti, III volume, 1960).

In questa edizione della Bussola federalista vi proponiamo alcuni estratti da un saggio di Mario Albertini sulla politica, consultabile interamente sul sito web della Fondazione Albertini (Tutti gli Scritti, III volume, 1960). Partendo dall’osservazione dei “tipi ideali” del comportamento politico riscontrabili nella società, Albertini individua il carattere distintivo della politica nel potere come attività specifica e analizza il rapporto tra potere e società, il ruolo delle ideologie e i diversi processi di partecipazione della società alla vita politica. Infine, il saggio propone alcuni cenni storici sullo sviluppo del pensiero politico, in cui l’autore mette in luce come l’assenza di una metodologia efficace delle scienze storico-sociali abbia a lungo impedito l’affermazione della scienza politica come studio specifico dei meccanismi del potere, attività oggi possibile e necessaria per colmare la distanza tra le sempre maggiori capacità della società nell’ambito della produzione tecnica e l’inadeguata organizzazione politica dell’umanità.

 

I TIPI IDEALI DI COMPORTAMENTO POLITICO

Se osserviamo la scena politica noi constatiamo che possiamo distinguere tre tipi di comportamento politico. In primo luogo troviamo pochi uomini che fanno della politica il fine principale della loro vita. Tra costoro taluni vivono di politica e per la politica, vale a dire sono compensati per la loro attività politica e vivono esclusivamente con questo compenso; altri vivono solo per la politica e traggono dalla ricchezza o da un lavoro esercitato in via subordinata i mezzi per vivere. In secondo luogo troviamo delle persone che non fanno della politica il fine principale della loro vita ma che, pur dedicandosi fondamentalmente a un’attività diversa, cercano di conoscere i fatti politici e di influire sulla loro evoluzione. In terzo luogo troviamo degli uomini politicamente poco attivi.

Il carattere tipico della politica è il potere come attività autonoma. Di per sé il potere non è un fatto politico. [...] Il carattere politico dell’azione umana emerge quando il potere diventa un fine, viene ricercato in un certo senso per se stesso, e costituisce l’oggetto di un’attività specifica. Tale attività corrisponde a una necessità sociale. [...] Una società non è possibile senza alcune regole generali di condotta e ciò richiede il potere di assicurare le regole e di decidere le condotte, e di conseguenza una specifica attività umana che si occupi del potere. [...] Il potere per sé stesso riguarda la possibilità di determinare la condotta degli altri e ciò equivale proprio alla possibilità di imporre dei valori. Esso include dunque, e non esclude, sia fini diversi da quello del potere, sia i valori. [...] Le persone che si dedicano a questa attività sono sottoposte alle leggi che regolano l’acquisto e il mantenimento del potere. In questo senso, come la medicina è la scienza del medico, così la ragion di Stato è la scienza del politico. [...] È vero che il politico si fa guidare dalla ragion di Stato, ma è anche vero che egli può aver meditato a lungo sulla forma migliore dello Stato indipendentemente dallo studio dei mezzi di potere indispensabili per realizzarlo, ed è altrettanto vero che egli può avere la stessa fiducia ingenua dell’uomo comune nell’ideologia che strumentalmente gli serve per mantenere il consenso. Lenin illustra perfettamente questo caso. Egli scrisse opere di ispirazione marxistica ortodossa sullo Stato, sull’imperialismo e così via, di indubbio carattere ideologico, e mantenne probabilmente per tutta la vita una fede ingenua nell’escatologia comunista. Tuttavia egli si distinse per le concezioni esposte in Che fare?, e le impiegò per realizzare il grande compito della sua vita: la fondazione di un nuovo potere. Orbene, queste concezioni contraddicono la sua filosofia marxista della storia, e sono una inconsapevole ma eccellente applicazione dei criteri della ragion di Stato.

Dobbiamo analizzare il comportamento del secondo strato politico per vedere quale aspetto della politica ne deriva. [...] In sostanza c’è uno scambio continuo tra società e potere e tra potere e società, nel senso che il potere interferisce con certe attività sociali, e certe attività sociali possono richiedere al potere certi interventi. [...] Ma l’esistenza di situazioni sociali non basta per determinare problemi politici. Le situazioni sociali si trasformano in problemi politici solo quando da una parte un potere le fa proprie, e dall’altra gli uomini interessati prendono coscienza dell’aspetto politico della loro situazione.

La descrizione del comportamento politico del terzo strato ci mostra due momenti tipici del processo politico: quello della stabilità del potere e quello della crisi del potere. L’individuo comune è passivo durante gli intervalli di stabilità, e diventa attivo nei momenti di crisi. Ciò equivale a dire che, quando il potere è stabile, l’individuo comune è piuttosto un suddito che un cittadino. [...] Questo aspetto del comportamento dell’individuo comune spiega il fatto della grande diffusione di alcune concezioni ideologiche della politica. [...] Di tal genere è soprattutto l’ideologia della nazione, che trasfigura il moderno Stato burocratico rappresentativo in un'entità mistica alla quale gli uomini dovrebbero tutto. [...]

Bisogna a ogni modo tener presente che la partecipazione diretta delle grandi masse al processo del potere è un evento storico molto recente. Da un certo punto di vista, si tratta soltanto dell’inizio di un grandioso processo di umanizzazione della politica che presenta, come tutte le cose nuove, le sue ombre e le sue luci.

 

CENNI STORICI SULLO SVILUPPO DEL PENSIERO POLITICO

Con la Grecia classica comincia la grande letteratura politica. Come è noto la stessa parola «politica» deriva da πολις, città, o, meglio, città-Stato, perché ogni città costituiva una organizzazione politica a sé stante. [...] Tuttavia il loro governo non si basava su un centro autonomo di potere dotato di propri mezzi burocratici. Questo fatto, unito a quello della fusione di sentimento cittadino e di attività politica, indusse i Greci a considerare la politica come un'attività morale piuttosto che come un'attività specializzata.

La politica come attività umana specializzata e il suo carattere esclusivamente umano emersero in piena luce nell’Italia del XV secolo. Il sistema di Stati regionali, indipendenti dall’Impero e dalla religione, che si formò in tale ambito geografico, fu caratterizzato da una vigorosa lotta per il potere sia all’interno di ciascuno Stato sia nei rapporti fra gli Stati, e prefigurò molti aspetti della politica del futuro sistema europeo. [...] Un’altra particolarità dei tempi contribuì alla comprensione della politica: le tendenze più radicali dell’umanesimo avevano escluso i criteri religiosi nell’interpretazione dell’azione umana. Nel freddo mondo di Machiavelli il principe è l’uomo che lotta per il potere. [...] Se egli ha una morale, questa morale è, come dirà quattro secoli dopo Max Weber, la morale della responsabilità.

Tuttavia, sino a tutto il sec. XIX è mancata una metodologia soddisfacente delle scienze storico-sociali [e dunque l’elaborazione di schemi concettuali efficaci nell’analizzare i fatti politici. Nella concezione di Hobbes per esempio,] il potere assoluto, costituito dalla rinuncia di tutti i sudditi a esercitare il proprio diritto naturale di autogoverno, si presenta al massimo grado di energia, ma nessuno influenza il potere, e in un certo senso nessuno lotta per acquistarlo o mantenerlo, ma semplicemente qualcuno lo possiede. In altri termini nella filosofia di Hobbes la politica è assente; e questo risultato paradossale corrisponde in fondo al metodo impiegato per spiegarla, metodo che mette in evidenza soltanto dati sociali generici, e si limita a dedurre direttamente il potere da tali dati senza considerare ciò che accade effettivamente nel dominio politico. [...] A ragione Meinecke ha osservato: «La scienza storica moderna ha fatto finora un più largo uso della dottrina della ragion di Stato che non la scienza politica, la quale soggiace ancora, per molti versi, alle conseguenze del vecchio metodo volto all’assoluto [...]».

Ma il progresso nella conoscenza dei fatti e nei metodi della loro sistemazione teorica consente di nutrire un ragionevole ottimismo sulle possibilità di affermazione di tale scienza, che potrebbe ristabilire un equilibrio tra le grandi possibilità degli uomini nel campo della produzione materiale e l’insoddisfacente assetto dell’organizzazione dei poteri politici.

 

  

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