Non è un caso che per il primo viaggio fuori dall'UE Ursula von der Leyen abbia scelto l'UA. Pochi se ne ricordano e - purtroppo - ancor meno ne hanno colto l'importanza, ma la Commissaria entrata in carica il 1°dicembre 2019, è volata, per un atto simbolico di una sola giornata strappata al nuovo lavoro, ad Addis Abeba, sede dell'Unione Africana per incontrarne il Presidente Moussa Faki Mahamat, ministro degli Esteri del Ciad. L'Africa è un partner su cui io conto, ha detto. Con ragione: un'Europa attenta al proprio futuro deve affrontare le tante realtà africane come obiettivi particolarmente significativi per gli interessi che il nostro continente può sviluppare in un'area che ci è "complementare". Troppi paesi nordeuropei dimenticano di non essere più bagnati solo dal mare Artico: infatti geopoliticamente il Mediterraneo bagna l'Europa. Oggi sono qui per ascoltare, ma anche per separare il successo (il Presidente dell'Etiopia avrebbe ricevuto la settimana successiva il Nobel per la pace per essere riuscito, dopo anni di conflitto, a realizzare un accordo di riapertura delle frontiere con l'Eritrea di Aferwerki) dalla realtà dei castelli di carta esistenti. Infine consolidò la visita simbolica con un contributo cooperativo di 100 milioni per interventi economici e, in aggiunta, altri 50 per investimenti nel campo della salute.

Sappiamo che Ursula tiene molto a privilegiare le competenze femminili (sua intenzione era che la Commissione contasse ben 17 donne). Pochi mesi dopo l'Etiopia ha voluto come Capo dello Stato una donna, Sahle-uork Zeudè, ex-ambasciatrice a Parigi, che, eletta all'unanimità, nel discorso di investitura disse chiaramente "Durante il mio mandato mi concentrerò sul ruolo delle donne in vista di assicurare la pace, così come i benefici della pace sulle donne". E' lo stile delle donne di governo (le Governanti) quando sanno di non essere sole; altrimenti nemmeno Merkel è sempre riuscita a mantenerlo. Infatti a  livello formale e di principio, anche l'UA non nega la parità: il paese che ha il numero più alto nel mondo di rappresentanti donne in Parlamento è il Ruanda. In realtà le Costituzioni teoricamente rispettano i diritti civili, mentre le istituzioni raramente si piegano a riforme che intendono cambiare il paradigma. Negli ultimi decenni l'Africa ha avuto spostamenti sociali rilevanti e, nonostante la natura dei luoghi, i deserti e le ormai antiche urbanizzazioni responsabili delle banlieue miserabili, l'uso dei cellulari anche dove non c'è abbastanza corrente per le tv fornisce comunicazioni ad africani e africane che ascoltano e, attraverso le diaspore, parlano, mentre gli europei restano sordi. Comunque bisognerà ricordare che nel 1985, nella seconda delle Conferenze del decennio dedicato dall'Onu alle donne, a Nairobi debuttò un femminismo internazionale alla presenza di 1900 delegate/i di 157 Stati e nella partecipazione a quasi duemila seminari e lavori di gruppo  sia nelle sedi ufficiali, sia nella Tribuna parallela.

La fattoria nell'altopiano del Kenia dove la danese Karen Blixen visse e scrisse "La mia Africa" oggi non stimola più l'immaginazione. Se Karen tornasse ai "suoi" amati altopiani, troverebbe gli stessi tramonti infuocati, ma anche un centro commerciale nel villaggio vicino e, se in città aprisse la tv, vedrebbe una Maria Filippi nera. Forse non gradirebbe scoprire che il modello occidentale è prevalso e ha cancellato quel qualcosa di magico che emoziona ormai soprattutto i suoi lettori. Forse le sarebbe piaciuto lavorare nella cooperazione internazionale: non sono più così tanti i bimbi con le pancine gonfie di miseria, ma sono cresciuti ambulatori e ospedali e i medici si laureano in università africane e diventano come Denis Mukwege che ha meritato il Nobel per la pace, ginecologo specialista nel riparare i danni devastanti degli stupri di guerra. Certo, Karen oggi avrebbe dovuto scegliere tra la Nairobi dei grattacieli o la Korogocho dei rifiutati e temere le minacce degli  islamisti. Comunque, leggerebbe la realtà dalla parte dei neri e, soprattutto, delle nere: il 50 % delle keniote è vittima di quelle "mutilazioni genitali femminili" che il Parlamento europeo ha più volte condannato e che trovano conferma nella cultura della popolazione, purtroppo anche femminile, a causa della persistenza (come "circoncisione faraonica" la nomina Erodoto) del patriarcato che ferocemente controlla e reprime il genere femminile, senza il quale la vita l'uomo non può trasmettere. La Netherdutch Reformed Church sudafricana ha promosso lo scorso anno la prima inchiesta nazionale sul "genere" e alla domanda "nella nostra cultura una donna deve prestare ascolto al proprio marito" l'85 % degli uomini e l'82 % delle donne ha risposto affermativamente.

Il costume è la palla al piede. La cooperazione dei governi europei ha sempre visto perfino le Ong dei sindacati affidare i progetti ai capifamiglia, senza rendersi conto che le donne che avevano esperienze lavorative condivise con altre donne ed erano quasi per natura cooperanti ideali. Solo che la tradizione incide nel tessuto civile e si perpetua nelle generazioni. Se in Italia la legge sull'aborto è contestata dagli integralisti, nemmeno le chiese sembrano  consapevoli dell'estensione di una piaga sociale pagata, nel silenzio della clandestinità nei paesi un tempo chiamati in via di sviluppo, da milioni di donne. Infatti, se l'Unfpa, il Fondo sulla Popolazione, scoprì, già alla Conferenza sulla popolazione del Cairo (1994), che il tasso di natalità previsto, di fatto, era risultato inferiore alle stime, era già evidente che le donne non volevano vedere la morte precoce dei loro nati e controllavano la fertilità. Sopravvivono le "mutilazioni genitali femminili" rese rituali e fondate sul pregiudizio dell'impurità: ma che le donne subiscano pratiche condannate da Onu e Oms non spinge la comunità internazionale a misure severe colpendo gli interessi economici dei paesi in cui questi interventi sono leciti. Più o meno tre mesi fa il Sudan - non è il solo - ha varato una legge che condanna a 3 anni chi opera o collabora alla pratica delle Mgf; ma le leggi non fanno passi avanti se non c'è monitoraggio e non si incoraggia la discussione nelle scuole. E solo poche Ong europee si dedicano a questa problematica con relativamente pochi progetti europei a favore dell'emancipazione. Sembra quasi vero che, come dice Amnesty International, i diritti umani delle donne non esistano. Una ricerca sugli interventi del Parlamento Europeo evidenzia quante volte si ripete il mantra del beneficio che deriva dall' investire sulle donne e quante iniziative e proposte si riscontrino nella promozione internazionale per l'empowerment  femminile, riscontrabili soprattutto nell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE). Ma anche la comunicazione del Parlamento europeo sulle questioni di genere resta di nicchia.

Intanto nell'UE come nell'UA esistono le giovani e i giovani. Oggi penalizzati. Le ragazze africane, come le nostre, sono le stesse figlie di Lucy: i governi arrivano a farle studiare ma la loro carriera viene penalizzata e da professioniste esige che siano complici dell'omologazione. Sono sensibili ai loro diritti, vanno in piazza a chiedere leggi, lottano contro la violenza sessista, ma senza poter cambiare le politiche, né quelle di genere, né quelle contro le violenze e le guerre. E in famiglia ripetono la storia delle mamme.

Eppure sono le donne a sostenere ogni singolo paese africano con il loro lavoro, spesso più gravoso di quello maschile, ma soprattutto con la "cura" della "riproduzione" (intendendo per "cura" la presa di responsabilità su cose, persone e ambienti; e per "riproduzione" un compito tradizionalmente legato al ruolo femminile in cui non vogliono più essere sole). Ormai anche loro non dovrebbero solo contribuire alle opere della sopravvivenza e della convivenza, ma guidarle. Forse più che in altre aree, sono le africane che tengono in piedi un intero continente: mettono al mondo i bambini, alimentano, vestono, custodiscono le case degli uomini e, nella sostanza, gli Stati. Difficile che gli Stati capiscano che questo rovescia l'ordine delle priorità.

 

  

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