Il futuro dell’Unione europea è nelle nostre mani: l’Unione europea è il migliore strumento per conseguire i nostri obiettivi”.

Sembrano passati decenni da questa dichiarazione che il governo italiano ha fortemente perseguito e voluto – a Roma, in occasione del 60° Anniversario della firma dei Trattati di Roma – quando, con il governo Gentiloni l’Italia investiva il proprio peso politico di Paese fondatore per spingere verso la riforma dell’Unione europea, per farla diventare quell’unione politica oggi più che mai necessaria, a 30 anni dalla fine della Guerra fredda e dalla riunificazione tedesca e a 20 anni dalla nascita dell’Euro. Oggi, al contrario, l’Italia rappresenta un vulnus nel cuore dell’Unione europea: un Paese troppo grande per non costituire un pericolo mortale con la sua politica dissennata, un Paese fondatore con cui – per citare i nostri amici tedeschi che riportano l’opinione diffusa tra la classe politica pro-europea in Germania – non si può in questo momento pensare di fare progressi nel processo di unificazione, ma senza il quale non si può neppure concepire un’avanguardia che spezzi lo stallo e promuova passaggi coraggiosi in direzione dell’Unione politica federale. L’Italia da motore federalista del processo europeo, grazie anche alla profonda impronta lasciata da Spinelli e dai federalisti europei nella sua cultura politica, ad alibi per i conservatori e a benzina per il motore nazionalista e populista che vuole invertire la rotta dell’unità.

Solo tenendo presente il problema che il nostro Paese, con questo governo, rappresenta in Europa si possono capire le reazioni dei parlamentari europei a Strasburgo lo scorso 13 febbraio di fronte al discorso di Conte. Molti hanno stigmatizzato il linguaggio schietto di Verhofstadt, sempre amante della provocazione, nel definire “burattino di Di Maio e Salvini” il nostro Presidente del Consiglio, esprimendo così apertamente quello che tutti pensano e quello che sulla stampa italiana è ricordato quasi quotidianamente; ma l’intervento di Verhofstadt, in realtà, ha oscurato molte altre reazioni altrettanto dure: ad esempio, l’attacco violentissimo di Manfred Weber – l’ultraconservatore bavarese candidato per i Popolari alla presidenza della Commissione europea – non solo a Conte, ma all’intero governo italiano per le sue politiche sbagliate e per le sue responsabilità in campo economico e politico. Oppure il fatto che l’Aula fosse semi-vuota, perché almeno ¾ dei parlamentari hanno espresso il loro dissenso ignorando la seduta, insieme a Juncker, peraltro, che è il Presidente della Commissione in carica. Sui giornali e nei commenti, invece, non sono state rimarcate abbastanza le provocazioni contenute nel discorso di Conte, che ha criticato Europa “dei burocrati”, accusando in modo infondato le istituzioni europee e omettendo il ruolo dei partiti italiani al governo che cercano regolarmente di bloccare tutte quelle misure che Conte invocava nel suo intervento; e per di più indicando nell’azione del governo in Italia il paradigma del cambiamento di cui l’Europa ha bisogno, il modello per porre fine al potere delle élites e dare voce al popolo.

La realtà è dunque che l’intervento del nostro Presidente del Consiglio al Parlamento europeo è stata un’occasione per portare chiaramente alla luce  l’opinione che il resto dell’Europa ha in questo momento dell’Italia. E’ inutile farsi illusioni: questa Italia che sta andando oggi in scena in Europa e nelle organizzazioni internazionali non solo è completamente isolata e conta solo detrattori (a parte il plauso soddisfatto di Trump e di Putin che ringraziano per l’aiuto fornito al loro tentativo di smantellare l’Unione europea); è anche guardata con un certo disprezzo, più che giustificato dal modo in cui agisce; e gli amici dell’Italia non si capacitano di come una nazione con le nostre qualità e i nostri numeri possa essersi infilata in un vicolo cieco del genere - un po’ come nessuno si spiega come abbia potuto un Paese come il Regno Unito scegliere di suicidarsi. Troppi osservatori e commentatori, nel nostro Paese, cedono all’orgoglio nazionale ferito; ma la verità è che ci stiamo ferendo da soli, e l’atteggiamento che gli altri ci riservano ci rimanda solo l’immagine offerta dal nostro governo.

L’ottica dell’orgoglio offeso funziona spesso come filtro anche davanti ad altre vicende internazionali ed europee. Una fra tutte il Trattato di Aquisgrana sottoscritto da Francia e Germania nella data simbolica del 22 gennaio, per rimarcare l’anniversario dell’analogo Trattato dell’Eliseo firmato dai due Paesi nel 1963. Si sono levate molte voci in Italia per criticare quello che è stato identificato come un accordo cercato per blindare un’egemonia franco-tedesca nell’Unione europea; lo stesso Conte, in un’intervista ripresa poi dal Sole24ore, lo aveva stigmatizzato sostenendo  che “è una questione di coerenza; ...se continuiamo a invocare un forte progetto europeo ma nei fatti ci sono Paesi che consolidano le loro relazioni bilaterali già privilegiate è ovvio che c'è il rischio di alterare il normale processo decisionale tra tutti gli Stati membri. Non possiamo permettere la creazione di un'Europa a geometrie variabili”.

La realtà è molto diversa. Per avere un futuro l’Unione europea deve ripartire da un’avanguardia determinata a rifondare su due diversi livelli di integrazione l’Unione europea, e per farlo deve innanzitutto poter contare nuovamente sul motore franco-tedesco. Proprio il fossato che si è scavato tra i due Paesi e che si è manifestato chiaramente a partire dal Vertice di Nizza del 2000 ha contribuito a inceppare l’avanzamento del processo. I due Paesi devono percorrere molta strada per ricreare il terreno comune. Come ha dimostrato l’incapacità della Germania di rispondere positivamente alle proposte di Macron (che proponeva di fare dell’eurozona il cuore più unito e integrato dell’Unione europea e di costruire a partire dallo sviluppo di una potenza economica globale la nuova sovranità europea), la distanza che separa i due Paesi sul futuro dell’Unione europea è ancora molta: la Francia oggi ha la visione di un’Europa che diventa potenza politica attrezzandosi con i poteri e le dinamiche democratiche di una comunità statuale federale; la Germania teme di abbandonare l’assetto attuale, ibrido, in cui la politica e il potere restano agli Stati e l’integrazione si decide ancora tra i governi nazionali, limitando al minimo il ruolo effettivo della Commissione.

Il Trattato di Aquisgrana è dunque parte di un percorso volto anche a colmare questa distanza e a rinsaldare la fiducia reciproca dopo anni difficili di trasformazioni profonde, anche nei rapporti di forza tra i due Paesi. Non solo: esso incarna, al tempo stesso, la volontà di Francia e Germania, in questa Europa in preda a crescenti deliri nazionalisti, di ergersi a baluardo del progetto europeo di unità e solidarietà tra i popoli, tra i cittadini, tra le generazioni; un progetto di pace, di libertà, di democrazia.

Il problema reale allora non è che Francia e Germania vadano avanti alla ricerca di un accordo per rendere l’Europa più forte; viceversa, lo è il fatto che l’Italia invece di contribuire positivamente a questo progetto (contributo di cui ci sarebbe un immenso bisogno) rappresenta un ostacolo e un nemico.

Per invertire il dilagare dei nazionalismi, la battaglia politica dei prossimi anni dovrà concentrarsi per rendere possibile la nascita di un nuovo assetto in Europa, riuscendo a coinvolgere i cittadini e avendo il coraggio di aprirsi la via con un’avanguardia di forze politiche e sociali e di Paesi determinati ad andare avanti. La battaglia all’interno del prossimo Parlamento europeo dovrà essere proprio quella volta a creare uno schieramento unitario di queste forze, che, collegato con la parte di società che vuole l’Europa e in alleanza con i governi nazionali che credono nell’unità, spinga a ridiscutere i trattati e a dar vita, con i paesi disponibili, ad una costituzione federale europea, nucleo di un’Unione europea più ampia in cui si collochino gli Stati che non vogliono l’unità politica, ma solo il mercato unico.

In questo progetto il ruolo non del governo italiano, ma dell’Italia come sistema paese resta indispensabile. Ed è proprio questo il senso della nostra battaglia per l’Italia Europea. Bene fa il nostro Presidente europeo, Sandro Gozi, eletto al Congresso UEF di Vienna a novembre, ad usare la sua credibilità e i suoi rapporti politici per andare in tutta Europa a propagandare questa nostra piattaforma politica federalista, spiegando al tempo stesso che esiste anche quest’altra Italia, che raccoglie comunque quasi il 50 % dei cittadini. Come italiani, non solo non dobbiamo fermarci per il fatto che, con questo governo, il nostro paese si troverà all’opposizione nella battaglia per la costruzione di un’Europa federale; ma dobbiamo spingere gli altri Paesi ad andare avanti anche in nome nostro, nel nome dei cittadini che credono nell’Europa e che vogliono vivere in Europa.

La nostra battaglia per un’Italia Europea si basa proprio sulla consapevolezza non solo che l’Italia, per avere un futuro, ha più che mai bisogno della Federazione europea; ma anche sul fatto che un’Italia Europea è indispensabile per l’Europa.

 

  

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