Il sistema internazionale contemporaneo vive sfide diverse e complesse in questa confusa fase storica.
Gli Stati Uniti, dopo l’illusione unipolare, vivono una complicata fase della propria storia politica. In un momento in cui la leadership repubblicana ha vissuto un profondo cambiamento generazionale, l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald J.Trump ha significato in politica estera e interna un cambiamento anche nel campo conservatore. Un rivolgimento non solo di “figure-chiave”, ma di idee e di valori. È in questa situazione che il presidente Trump orienta la sua politica estera: non solo (come i suoi predecessori) cerca di limitare gli impegni internazionali (a partire dall’Afghanistan) al fine di ridurre il rischio di Imperial Overstretch, ma, a differenza delle precedenti amministrazioni, inizia a mettere in discussione l’impegno degli Stati Uniti nei contesti multilaterali.
È accaduto con il disimpegno dalle organizzazioni legate alle ONU, al linguaggio sprezzante utilizzato nei confronti dell’UE e alle crescenti divergenze all’interno dell’Alleanza atlantica.
Non appare questa una tendenza legata alla contingenza, ma una vera e propria posizione ideologica espressa dalla nuova amministrazione. Eppure, sono stati proprio gli USA a sostenere la cooperazione internazionale in campo economico, a sostenere l’impegno militare e di sicurezza in Europa (attraverso la NATO), a sostenere i primi passi dell’integrazione europea all’indomani del Piano Marshall. In buona sostanza, gli USA mettono in discussione, a partire da questa presidenza, il contesto multilaterale del Dopoguerra di cui erano stati il principale promotore.
Inoltre, l’auto-rappresentazione degli Stati Uniti quale paese vulnerabile, ancora in difficoltà dopo la Grande Recessione e con problemi irrisolti di riconversione industriale, determina una politica neo-protezionistica che pone sotto tutela vasti settori dell’industria e dell’agricoltura, senza creare un fattivo rilancio dell’economia e dei settori industriali in crisi: in questo quadro va letta la “guerra dei dazi” con la Cina.
Si tratta, dunque, di una radicale svolta rispetto al più difeso principio di politica estera e politica commerciale degli Stati Uniti: il principio della porta aperta. Grazie alla libertà nei commerci gli USA hanno costruito le premesse per le loro fortune successive.
Mentre gli USA e alcuni dei loro ‘cugini’ sovranisti europei cercano di limitare gli scambi transfrontalieri, la Cina punta, invece, proprio attraverso la leva economica, a costruire una nuova fase del proprio impegno internazionale. Pechino, infatti, dopo decenni di crescita economica chiede di contare politicamente e si pone come maggiore difensore del commercio internazionale. Sono proprio la crescita economica, il valore assoluto del PIL, a determinare la rinnovata posizione di primazia della Cina nella situazione contemporanea. Si tratta, beninteso, non di una crescita disordinata, ma il frutto di un’accorta politica estera.
All’interno della propria area geografica, la Cina ha operato una progressiva, ma inesorabile, normalizzazione dei propri rapporti con i suoi vicini, a cominciare dal Giappone. I leader cinesi hanno avviato altresì un riavvicinamento al rivale indiano e alla Russia sia dal punto di vista economico, sia per quanto concerne i rapporti politico-militari.
Anche se la Cina formalmente non è parte di alcuna alleanza militare, assieme a questi ultimi e con i paesi dell’Asia centrale (Kazakhstan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Pakistan) ha dato vita nel 1996 allo Shanghai Five Group poi divenuto, nel 2001, la Shanghai Cooperation Organization (SCO). Tale organizzazione ha aperto la strada ad una cooperazione militare e di sicurezza tra i paesi di cui è parte. Molte sono state le esercitazioni congiunte tra i paesi contraenti, nonché i rapporti di cooperazione economica in materia di difesa. La Cina, anche attraverso questo importante strumento, ha perseguito il consolidamento della propria posizione strategica e il contenimento dell’egemonia americana. Ma Pechino ha, nel corso degli ultimi venti anni, conseguito posizioni di primo rilievo in Africa, dove ha costruito una fitta rete di rapporti politici e di accordi economici che le hanno garantito lo sfruttamento di importanti risorse naturali (in Africa la Cina crea il FOCAC, Forum per la cooperazione sino-africana).
Ma è la Belt and Road Initiative (BRI), la nuova Via della Seta, a costituire la sfida cinese più interessante. Si tratta del più importante piano infrastrutturale mai visto in Asia, volto a portare la modernizzazione laddove non è ancora presente. Questo progetto connetterà la Cina ad ingenti risorse e determinerà un profondo cambiamento nel sistema dei trasporti in Eurasia. Come per le iniziative in Africa, la BRI poggia le sue fondamenta su solide basi multilaterali: il progetto si fonda su due organizzazioni specializzate, il Silk Road Fund e la Asian Infrastructure Investment Bank, pensate sulla base di IMF e World Bank rispettivamente.
La Cina, tuttavia, inizia ad avvertire un cambiamento del contesto politico interno: il Congresso del Partito Comunista Cinese ha teorizzato una nuova centralità politica del partito nella società e del suo leader. Parimenti sono aumentate le restrizioni alle libertà di espressione (soprattutto il controllo delle reti informatiche), ma, al contempo, vengono promosse iniziative per il controllo dei funzionari pubblici, con il fine di reprimere i malcostumi corruttivi, consentendo altresì un controllo della rete del partito e, attraverso esso, della vita pubblica. Si tratta di una società, ad ogni modo, in profondo cambiamento che vive, da più di un decennio una forte crescita economica e le sue conseguenze (neo-urbanizzazione, inquinamento, complicate condizioni delle minoranze).
In conclusione, la Cina è in una fase di crescente di competizione con l’Occidente e, soprattutto, con gli Stati Uniti. I crescenti investimenti nel settore della difesa, la continua fame di risorse, la cooperazione attraverso la SCO e, soprattutto, la BRI costituiscono elementi-chiave per la definizione del suo profilo. Se prima la Cina mirava semplicemente al contenimento dello sfidante americano, oggi si dimostra capace di confrontarsi anche se, dal punto di vista strategico, non appare pronta per un confronto alla pari con Washington.
Gli Stati Uniti, d’altro canto, vivono una fase di retrenchment, di ritiro verso i propri confini, sotto il profilo sia politico che economico. Lo scopo è più la salvaguardia della propria posizione di primazia che la dialettica con i nuovi attori, anche se, come dimostrano le controversie commerciali con Pechino, non mancano gli elementi di frizione diretta.
Tutto questo crea, com’è ovvio, preoccupazione soprattutto in Europa, dopo la scelta americana, ad esempio, di sospendere la partecipazione al Trattato INF (sulla limitazione delle armi nucleari di medio e corto raggio.
È proprio dall’Europa, tuttavia, che pervengono le maggiori incertezze. La perversa dinamica costituita dall’avanzata delle forze sovraniste e dallo stallo del processo d’integrazione costituiscono un elemento di debolezza inedito per il continente europeo.
Non è chiaro, al momento, se si aprirà una nuova fase competitiva tra le grandi superpotenze, né se ci avvicineremo ad un sistema multipolare o ad un diverso tipo di sistema internazionale.
L’Unione europea e i suoi Stati membri, vivono ai margini dei processi e delle decisioni dei grandi player continentali, spesso subendole. È quanto mai necessario un approfondimento dell’integrazione politica (e, quindi, anche nel settore della politica estera e della sicurezza comune) affinché il continente europeo possa farsi portatore di una propria visione e una propria autonoma strategia nelle relazioni internazionali.