“Non è più questione di epoca di cambiamenti, bensì di un cambiamento d’epoca”, disse non molto tempo fa Papa Francesco.
La contraddizione tra i problemi che richiedono una risposta politica “mondiale” e la dimensione nazionale (e persino continentale) del potere comincia a manifestarsi, in forme molto concrete e tali da influenzare la stessa azione politica.
La questione della salvezza del nostro Pianeta è uno degli esempi più evidenti di questo cambiamento d’epoca. Di fronte al rischio, sempre più vicino, di modiche irreversibili del regime climatico del Pianeta, cominciano a prendere forma azioni che pongono il tema di una risposta ‘mondiale’, dunque, in ultima istanza, dell’avvio delle prime forme di azioni per l’unità mondiale.
L’altra grande questione globale è quella delle migrazioni. Non riguarda solo il Mediterraneo e l’area orientale dell’Unione europea. L’intero continente africano è attraversato da imponenti fenomeni di migrazioni interne. Un fenomeno analogo avviene anche in quello americano, come pure in molte aree del medio e dell’estremo Oriente. Lo alimentano l’ineguale distribuzione delle risorse e del potere nel mondo, le guerre, le carestie e la povertà. Lo stesso cambiamento climatico alimenta i movimenti migratori. Anche in tal caso riscontriamo la contraddizione crescente tra la necessità di risposte mondiali e la dimensione ancora nazionale del potere. Una contraddizione che negli ultimi anni ha messo in crisi l’Unione europea, spaccando l’opinione pubblica.
Queste due grandi questioni hanno influenzato l’esito delle elezioni europee dello scorso maggio. Il movimento avviato da Greta Thunberg ha orientato il voto in molti Paesi del centro-nord Europa, sbarrando la via ai movimenti sovranisti. E la questione migratoria sta mostrando come l’azione, ancora definita riduttivamente come ‘umanitaria’, si sia trasformata in azione politica, capace di influenzare le istituzioni europee e di modificare i rapporti di forza nella politica nazionale.
Dunque, stanno nascendo concreti ‘movimenti’ di lotta politica transnazionale che pongono, ad un tempo, sia la questione del completamento dell’unità politica europea sia dell’avvio del processo di unità mondiale.
È questo il senso profondo che oggi si pone per un’azione politica che voglia porsi all’altezza dei problemi. Un’azione che riguarda innanzitutto i federalisti, come portatori storici della contraddizione tra i fatti (che sono ormai non solo europei, ma anche mondiali) e il potere di dominarli (cosa che oggi è, in parte, sia nazionale sia europeo).
Un’azione che non può che partire dal nuovo quadro politico europeo. Dalle urne dello scorso Maggio è uscita una maggioranza politica, decisa nel e dal Parlamento. Malgrado il tiro incrociato nell’ultimo anno operato da molti governi sul metodo degli spitzenkandidaten, alla fine la ‘sachlogik’, la logica o la forza delle cose, per dirla con Walter Hallstein, primo presidente della Commissione europea (1958-1967) ha prevalso, facendo emergere una maggioranza politica, determinata dalle forze politiche presenti in Parlamento, non teleguidata dei governi nazionali.
Da questo punto di vista l’elezione di Ursula Von der Leyen si configura come l’affermazione definitiva di un governo politico dell’Unione (come completamento di un processo già avviato con la presidenza di Jean-Claude Juncker), che richiederà dunque una forte azione di governo per dare una risposta alla domanda politica emersa dalle elezioni e dai ‘movimenti’ che interpretano le diverse manifestazioni della crisi europea e mondiale.
È con lenti europee che occorre guardare anche a quel che è successo negli ultimi mesi in Italia.
Il primo effetto di questa nuova maggioranza politica europea si è avuto con la crisi di governo. Il M5S è, di fatto, passato nel “campo europeo”. Per una forza politica la ‘scelta di campo’ è quella essenziale, come fu richiamato plasticamente dalla copertina de L’Unità Europea (nr.1/2018). E da una scelta di campo ne discendono poi altre: per un paese come l’Italia è impossibile stare in questa maggioranza europea e nel governo nazionale con chi sta all’opposizione in Europa.
L’obiettivo di Salvini era, al contrario, quello di destabilizzare l’Unione, condizione necessaria per “prendere il potere” in Italia. Immaginava un clamoroso risultato sovranista in diversi Paesi dell’Unione, obiettivo non dissimulato da Putin e da Trump, sponsor politici delle forze sovraniste. Ma Salvini ha perso in Europa, escluso dalla nuova “maggioranza europea” che si è immediatamente proposta come una potenziale alternativa in Italia. E se perdi in Europa, alla fine perdi anche in Italia. Ciò significa che il potere europeo è un magnete. Successe già nel 2011 con Berlusconi al governo. Come allora, possiamo dire che è l’Europa che sconfigge chi porta uno stato-membro in rotta di collisione con le regole e la partecipazione all’Unione. Non è un sopruso, non è una violazione della sovranità nazionale, come dicono (e diranno ancora) i nazionalisti. È al contrario l’affermazione del primato della democrazia europea (sovrannazionale) su quella nazionale, è l’affermazione del potere ‘unionista’ su quello ‘secessionista’.
L’Unione Europea non è quella cosa burocratica e artificiosa che da anni la propaganda nazional-populista vuol far credere a molti cittadini, abbandonati alla disinformazione e al deserto culturale-politico, bensì una costruzione politica democratica che si è andata consolidando nel tempo. Pur ancora difettosa in campi essenziali per un’efficace azione di governo (fiscalità e sicurezza, in senso lato), è comunque dotata di poteri (in particolar modo a livello dell’Eurozona) tali da condizionare il comportamento di quegli Stati-membri che non rispettano le regole del gioco.
Ora la nuova maggioranza europea ha bisogno di consolidarsi, innanzitutto per rafforzare il primato dell’Unione su quegli Stati che non accettano ancora tutte le regole europee, ad esempio, in materia di Stato di diritto (Paesi di Visegrad). Questo rafforzamento del potere europeo (la Commissione) non può che passare attraverso lo sviluppo di quelle politiche in cui si manifesta ancora una carenza di potere europeo. Concretamente: la politica migratoria, la politica per uno sviluppo sostenibile e quella per un sistema di sicurezza comune (difesa e politica estera).
Il Parlamento europeo può cominciare a rivendicare poteri e risorse per sviluppare queste politiche, stabilendo ad esempio le priorità del nuovo Quadro finanziario pluriennale, chiedendo che il Consiglio (dei Ministri) voti a maggioranza qualificata su fiscalità e sicurezza. La Commissione può elaborare e sviluppare le prime risposte in tal senso, dirottando le risorse finanziarie sulle politiche prioritarie e, soprattutto, attivando nuovi strumenti operativi (Agenzie federali) per gestire la politica migratoria e di sviluppo, come pure indicando tempi e modi per giungere alle prime forme dell’esercito “degli europei”, secondo l’indicazione della stessa Ursula von der Leyen.
L’Unione ha bisogno delle “politiche da fare” per rafforzare le proprie strutture istituzionali. Il potere federale che ancora manca in certi settori cruciali nasce sviluppando queste politiche. Il potere reale nasce, infatti, dallo sviluppo delle politiche che lo rendono necessario, oltre che dalla lotta politica per la sua acquisizione.
I Trattati si stipulano solo dopo che il fatto di potere - che ne sostiene l’introduzione - si è già affermato nei fatti attraverso lo sviluppo delle politiche che lo hanno determinato.
E la stessa azione dei governi nazionali è sempre più delimitata dal fatto che operano nel contesto di un processo politico che vede già ben presente l’azione di istituzioni europee consolidate, dotate di una propria logica di sviluppo, quindi portate, per loro natura, ad aumentare il potere nei campi di propria competenza.
Sono queste ultime le vere interlocutrici di chi vuol portare a pieno compimento il processo federale europeo. Con azioni di lotta e di governo.