Se mai ve ne fosse stato bisogno, le vicende che hanno preceduto e seguito le elezioni europee si sono incaricate  di dimostrare che l'Unione europea non ha raggiunto un assetto stabile. É infatti attraversata da crisi e sommovimenti che la collocano, per dirla con padre Dante, tra color che sono sospesi. Tra speranze e disinganni, progressi e arretramenti, unità e divisione. Si potrebbe facilmente osservare che così è avvenuto fin dall'inizio. Senza dubbio. E senza eccessivi problemi, si potrebbe aggiungere, perché la stabilità del quadro mondiale garantiva al fragile edificio comunitario una solida rete di protezione.

Oggi il piccolo cabotaggio non è più concesso. Gli europei sono stati gettati nel mare aperto della storia, quella storia che per secoli avevano determinato e da cui nei decenni del secondo dopoguerra erano stati tenuti lontani, protetti dai demoni scatenati da loro stessi nella prima metà del XX secolo. Ora quei demoni sono tornati prepotentemente sulla ribalta europea e mondiale. Si chiamano nazionalismo, protezionismo, politica di potenza, in una competizione estrema che potrebbe portare alla fine dell'umanità.

Brexit è stato il primo segnale che i tanti compromessi che nel tempo avevano segnato le tappe del cammino europeo non erano più in grado di tenere insieme l'Unione. La vicenda dell'uscita del Regno Unito non è ancora giunta all'epilogo, ma finora l'Unione ha retto bene l'impatto ed è semmai al di là della Manica che si sono manifestate le conseguenze più gravi. A partire dal referendum inglese e dalla vittoria di Trump tutti, amici ed avversari del'Europa, hanno cominciato però a guardare alle elezioni europee del 2019 come uno spartiacque, una prova del fuoco, addirittura un giudizio di Dio.

Ebbene, il popolo europeo si è pronunciato ed ha dato due segnali inequivocabili. Innanzitutto vi è stato un balzo nella partecipazione al voto. Non la semplice inversione di una tendenza che aveva visto gradualmente ma inesorabilmente diminuire i votanti ad ogni tornata elettorale. Questa volta, con centinaia di milioni di cittadini che si sono recati alle urne, è stata superata la fatidica soglia del 50 %, un limite che talvolta non si raggiunge nemmeno nelle elezioni federali americane. Difficile sostenere ora che l'Europa non interessa, non ci riguarda, non scalda i cuori.

L'altro dato è naturalmente il consenso raccolto dai vari partiti.  Se il confronto tra la composizione del vecchio e del nuovo parlamento rivela un indubbio rafforzamento dello schieramento nazionalista, è altrettanto vero che il fronte europeista gode ancora di un'ampia maggioranza. E' al suo interno piuttosto che vi sono stati i cambiamenti più significativi. Infatti popolari e socialisti hanno perso la maggioranza assoluta dei seggi, che detenevano fin dalle prime elezioni del 1979. Sono invece cresciuti i verdi e soprattutto i liberali, nel cui gruppo è entrato anche il partito di Macron.

Le innovazioni del Trattato di Lisbona hanno creato l'illusione che il voto a maggioranza all'interno del Consiglio e l'obbligo di tener conto dei risultati delle elezioni per designare il candidato alla presidenza della Commissione fossero sufficienti da soli per creare una democrazia sovranazionale fondata sull'alternanza e su partiti veramente europei. E' bastata la mancata approvazione delle liste transnazionali, che di quella procedura sarebbero state il logico complemento, per far saltare quell'illusione.
Già in campagna elettorale, infatti, si sapeva che i partiti pro-europei sarebbero stati condannati ad allearsi e che la vera sfida non era tra gli Spitzenkandidaten, ma tra nazionalisti ed europeisti . Vinta quella battaglia e marginalizzati euroscettici e sovranisti, all'interno del Parlamento non si è trovato alcun accordo programmatico sulla cui base eleggere poi il presidente della Commissione. Il Consiglio ha avuto così mano libera nel proporre il suo pacchetto di nomine, bilanciando il diverso peso degli Stati, dei partiti e, per la prima volta, anche dei generi. Il Parlamento ha finito per accettare la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione, ma con una spaccatura del fronte europeista che ha visto i verdi votarle contro ed il gruppo dei socialisti e democratici diviso tra favorevoli e contrari. La nuova Presidente della Commissione è così passata con uno scarto di appena 9 voti e con l'appoggio determinante degli euroscettici polacchi del PiS nonché dei pentastellati italiani. Detto questo, bisogna riconoscere che il programma presentato dalla von der Leyen contiene delle proposte molto significative ed anche innovative (vedi articoli a pagina...).
Tra di esse la più importante per i federalisti è sicuramente la conferenza sul futuro dell'Europa, che riprende una idea di Macron e che dovrebbe essere convocata nel 2020. Proprio perché l'iniziativa non è ancora definita, è opportuno che fin da ora i federalisti si preoccupino di fissare i loro obiettivi per cogliere questa importante occasione e trasformarla nell'atto di rifondazione dell'Europa.

Ancor più “sospeso” dell'Europa è in questo momento il nostro Paese. La crisi provocata dalla Lega in pieno agosto ha determinato la caduta del governo gialloverde, senza aprire per ora la strada alle elezioni  anticipate pretese dal suo leader. Seguendo in queste ultime settimane i giochi di palazzo, le giravolte di uomini e partiti, gli insulti ed i battibecchi che imperversano sulle nuove piazze virtuali, verrebbe la voglia di concludere con Flaiano: “La situazione in Italia è sempre grave, mai seria”. Non ce ne voglia lo scrittore abruzzese se per una volta ci permettiamo di dissentire. Ora infatti il momento da serio corre il rischio di diventare tragico, perché è lo stesso sistema liberal-democratico che è messo in discussione da chi pretende pieni poteri per dieci anni. Dopo aver ceduto per due volte, nello scorso autunno e poi a luglio, alle richieste sensate e per nulla esorbitanti della Commissione europea, la manovra finanziaria per il 2020 doveva diventare nelle intenzioni del leader leghista il campo per uno scontro frontale con l'Europa all'insegna di uno “choc fiscale” senza precedenti, e soprattutto senza coperture.

Il voto dei parlamentari del M5S a favore di Ursula von der Leyen e la ferma volontà del Presidente del Consiglio e del Ministro dell'economia di evitare la rottura con l'Europa avevano però già tarpato le ali al sogno sudamericano della finanza allegra e del ritorno alla lira. Purtroppo le velleità dei nostri cosiddetti sovranisti  non ci sono costate solo 5 miliardi di maggiori interessi sul debito pubblico, l'arresto della crescita, le difficoltà delle banche e del credito, ma hanno impedito l'emissione di titoli statali a medio – lungo termine a tasso irrisorio o addirittura negativo che altri Paesi come la Spagna ed il Portogallo stanno collocando con successo e con effetti  benefici sulla sostenibilità del loro debito.

Mentre scriviamo queste righe, il Presidente della Repubblica ha convocato Giuseppe Conte  per dargli probabilmente l'incarico di formare un nuovo governo sulla base di un accordo politico tra M5S e PD. I prossimi giorni ci diranno se l'impresa andrà in porto. Fin da ora è facile prevedere che senza un solido ed esplicito ancoraggio europeo il nuovo esecutivo avrà vita breve e precaria, spalancando le porte ai nemici dell'Europa e dell'Italia. Nel Regno Unito coloro che volevano ridare la sovranità al Parlamento di Westminster hanno appena ottenuto dalla Regina il beneplacito per impedire alla Camera dei Comuni di riunirsi e di prendere posizione su Brexit. Quanto sta accadendo nella patria della democrazia parlamentare e liberale dovrebbe convincere i “tepidi defensori” dell'Europa, ancora così numerosi ad di qua della Manica, che è necessario introdurre “ordini nuovi” per salvare il Vecchio Continente ed offrire una speranza al mondo intero. I federalisti saranno in prima linea per combattere “partigianamente” questa decisiva battaglia.

 

  

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