Dopo centocinquanta anni di unità nazionale e di questione meridionale dobbiamo rassegnarci a credere che per il Sud d’Italia non ci sia più nulla da fare?

Dopo centocinquanta anni di unità nazionale e di questione meridionale dobbiamo rassegnarci a credere che per il Sud d’Italia non ci sia più nulla da fare? Che i numerosi tentativi di creare uno sviluppo reale del Mezzogiorno d’Italia siano definitivamente un ricordo di una storia di malaffare, sprechi, opportunità mancate e che quindi sia meglio lasciar perdere per evitare di commettere altri errori? Che proprio per questo qualsiasi forma di “autonomia differenziata” certificherebbe definitivamente quello che recentemente la SVIMEZ ha confermato come una ripresa consistente del divario nord/sud nel quadro di un significativo allontanamento, non solo politico, ma anche economico e sociale del Paese dall’Europa continentale?

Dopo anni di crisi ha preso corpo l’idea che, mentre prima si poteva dividere una torta che cresceva, adesso si deve dividere una torta che avrà la stessa dimensione e che l’assetto politico e istituzionale del Paese va ridiscusso, ma senza troppi dibattiti e con l’ennesimo e occulto tentativo di dividere il Paese senza darlo a vedere. Ecco quindi l’”autonomia differenziata” – si legge secessione - pronta per l’uso e in versione light. L’idea guida è sempre quella che le numerose parti del Paese dovrebbero gestire autonomamente le risorse che producono. Nient’altro! Un'altra buona dose di quel sovranismo in versione localista dove ognuno fa per sé e Dio per tutti!

Ma qual era il reddito per abitante della parte settentrionale e meridionale del paese al momento dell’Unità d’Italia? Le stime – difficili da acquisire per la modestia dei dati disponibili – variano una “prossimità tra Nord e Sud” fino a un quarto in meno per il Sud. Il dato vero è che dopo centocinquanta anni di unità il reddito per abitante del Mezzogiorno è circa la metà e che questo divario si è formato dal 1880 al 1950. Dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80 c’è stata una sorta di recupero ma alla fine è rimasto intorno a poco sopra la metà. La recente crisi infine ha dato il colpo di grazia al Mezzogiorno desertificando il sistema produttivo ed industriale, riavviando un esodo di risorse umane “intelligenti”, facendo esplodere il disagio sociale, rilevando una diversità nelle condizioni di contesto del Sud impressionanti rispetto al Nord (istruzione, sanità, infrastrutture, servizi).

In sintesi, il Mezzogiorno si caratterizza sempre più come un’area fortemente arretrata rispetto al resto dell’Europa con alcune caratteristiche salienti: (a) un reddito per abitante molto basso rispetto al resto del Paese; (b) una forte concentrazione della ricchezza soprattutto verso ceti sociali arretrati e conservatori, privi di quell’impulso di cambiamento e innovazione che altrove hanno innescato processi di sviluppo; (c) un continuo spreco di risorse pubbliche – vedi l’utilizzo distorto o il mancato utilizzo dei fondi comunitari – con un significativo livello di inefficienza della pubblica amministrazione; (d) un contesto di forte evasione fiscale e di presenza di criminalità organizzata adesso non più in contrasto ai poteri pubblici (come nella breve stagione stragista della mafia), ma di convivenza pacifica con forti commistioni tra sistema legale e illegale nel mondo degli affari e dell’imprenditorialità.

Queste caratteristiche sono particolarmente leggibili principalmente nelle statistiche delle tre regioni più grandi del Sud: Campania, Calabria e Sicilia. L’economia non decolla e resta l’uso delle sempre più residue risorse pubbliche quale unica ancora di salvezza. Vedi la questione del c.d. reddito di cittadinanza che tante aspettative elettorali ha suscitato nell’elettorato meridionale. Le risorse pubbliche sono utilizzate per occupare persone, erogare sussidi, realizzare opere inutili, finanziare spese improduttive. Continua la sagra dello sperpero accompagnata da un malaffare, ormai silenzioso. Il circolo tra politica – risorse pubbliche e imprenditoria non sembra rompersi. Vedi le recenti vicende giudiziarie, politiche e imprenditoriali in Sicilia sui legami di alcuni noti imprenditori nel settore dei rifiuti con il sistema mafioso e le relazioni con i poteri pubblici regionali. Alla fine si rinnova e ricostruisce sempre un equilibrio economico povero, costoso e corrotto, in una logica familistico-clientelare che certamente non può contribuire ad alcun cambiamento.

Nel corso del tempo il Mezzogiorno d’Italia ha mutato volto e funzione. Prima quella di un bacino di manodopera dal quale attingere ai tempi dell’industrializzazione accelerata del Nord. Poi di un mercato per le “esportazioni” delle imprese del Nord.  E ancora ha svolto una funzione politica nel bilanciare il pericolo di una deriva social-comunista del Paese. E anche alcune delle risorse pubbliche destinate al Sud sono, attraverso un circolo vizioso, tornate al Nord in termini di forniture, consulenze, investimenti. Oggi queste funzioni economiche e sociali hanno esaurito la loro rilevanza. Il sistema produttivo del Nord-Est esporta oltre i confini nazionali in una nuova catena del valore globale dove il Sud non è più periferia, bensì area marginale (la manodopera dequalificata proviene da altre aree del mondo). Le ragioni “materiali” del sistema centro-periferia Nord/Sud si sono esaurite e con esse anche le politiche economiche di sostegno e di sviluppo del Mezzogiorno. Da più di un decennio è stato meglio non parlare della “questione meridionale” perché risulta scomodo, visti i fallimenti economici e sociali, scandaloso per i numerosi episodi di corruzione e inopportuno visti i processi di globalizzazione dell’economia. E allora che fare?

Preso atto che le politiche messe in campo recentemente hanno effetti quasi nulli (sul reddito di cittadinanza si stima un +0,1% nel 2019 del PIL), non modificano l’assetto produttivo, economico e sociale del Mezzogiorno, sono solo provvedimenti di spesa corrente una tantum e che la spesa pubblica per investimenti segue un trend comunque decrescente (specie nel Sud d’Italia), da qualche parte bisognerà pur ripartire. La prima cosa da comprendere è che la “questione meridionale” ormai è diventata “questione nazionale”, sia per la sua persistenza nel tempo sia per la dimensione geografica e sociale del fenomeno.

Occorre ripartire da quei fenomeni sociali ed economici di cambiamento che lo stesso recente rapporto SVIMEZ ci segnala. Nonostante la crisi, ci sono ancora aree di eccellenza non trascurabili nei settori manifatturieri in Sicilia, Campania e Puglia. Bisogna individuare, valorizzare ed estendere queste aree di eccellenza, creando meccanismi di rottura e di mutazione genetica del sistema produttivo ed economico, ricercando vocazioni economiche diverse. Superato l’approccio top down (le imprese pubbliche e le multinazionali attraverso incentivi) e più recentemente bottom up (iniziative locali) è necessario favorire un approccio misto di attrazione di investimenti esterni, incentivi pubblici, sostegno all’internazionalizzazione e innovazione, volte a favorire processi autonomi di sviluppo imprenditoriale e locale che tengano conto delle diversità e specificità. Grande attenzione deve rivolgersi a quei fenomeni d’imprenditorialità diffusa in settori innovativi e/o export-oriented slegati da fenomeni di corruttela politica e clientelare o di subordinazione alla spesa pubblica. E ancora: politiche orientate a favorire lo sviluppo di un’economia circolare e sostenibile senza passare attraverso i consueti e tradizionali processi di industrializzazione etero-diretta. Anche la recente proposta di un’Agenzia del Sud o “Iri della conoscenza” (sul modello della Fraunhofer-Gesellschaft tedesca) appare utile per realizzare un serio piano d’investimenti in infrastrutture economiche, ambientali e sociali e di trasferimento tecnologico e del sapere. È ormai chiaro che le politiche dell’innovazione, da sole, non bastano, nemmeno la spesa pubblica in R&D, sia sul versante pubblico che su quello privato. E nemmeno, da sola non basta una buona politica per l’istruzione, la conoscenza, il sapere.

Si tratta quindi di concepire un modello che metta in rete le realtà che non riescono a valorizzare il talento di tanti giovani italiani che vanno a fare fortuna in (e la fortuna di) altri Paesi. L’idea è di una rete coordinata di soggetti pubblici che possano relazionarsi con quelli privati, che operi non soltanto nel senso «hard» del trasferimento tecnologico, ma in quello «soft» della diffusione di sapere e di una cultura per l’industria e il lavoro. Una vera e propria dose di contrasto profondo anche ai fenomeni mafiosi e di corruzione. E che tra l’altro rientri in un più ampio progetto di politica industriale e/o “Industrial Compact” in grado di rispondere alla sfida di competitività del Mezzogiorno. E, infine, occorre ripensare alla programmazione dei fondi di coesione orientando principalmente la spesa su grandi progetti strategici e su politiche di “rottura”.

Tutto ciò ci riconduce al tema del capitale sociale e istituzionale del Mezzogiorno, all’importanza delle condizioni di contesto (istruzione, sanità, infrastrutture, reti civiche, etc..) all’interno del quale è ricompresa anche la questione della criminalità organizzata, rivelatrice dell’assenza del monopolio della violenza da parte dello Stato. La priorità delle politiche pubbliche deve quindi essere rivolta soprattutto a rafforzare il capitale sociale ed istituzionale dei territori meridionali in grado di avviare processi di mutazione sociale ed economica. Un nuovo modello di sviluppo che sia alla base del cambiamento sociale e politico del Mezzogiorno e che a sua volta riconosca un assetto istituzionale e politico di tipo federale nel quale si valorizzi l’importanza dell’autonomia ma nell’unitarietà d’indirizzo dell’agire politico. E in questo un’Europa federale rinnovata potrebbe solo essere da ausilio e auspicio per una questione meridionale e nazionale.

 

  

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