Orson Welles e la Guerra dei mondi: l'incredibile storia di un (radio) dramma annunciato

Il secolo americano comincia nel 1898.
Quando gli venne chiesto quale fosse la maggiore novità politica di quel tempo, il Cancelliere tedesco Bismark rispose “il fatto che il Nord America parla inglese”. Il campione della diplomazia multilaterale aveva intuito che il maggior rischio per la Germania sarebbe derivato dai poteri “soft”, dai legami culturali tra Gran Bretagna e la nuova potenza economica oltre oceano. Bismarck morì nel luglio del 1898, all’età di 83 anni, dopo aver completato l’unificazione della Germania e, tra le altre cose, la realizzazione del primo sistema pensionistico.

Nello stesso anno venne pubblicato un libro destinato ad un enorme suc­cesso, “La guerra dei mondi” di Herbert George Wells, racconto fantascientifico dell’invasione della Terra da parte dei marziani. Quarant’anni dopo Orson Welles ne avrebbe fatto una versione radiofonica talmente verosimile da scatenare il panico tra gli ascoltatori. Il significato della Guerra dei Mondi sta a metà tra la scienza della teoria darwiniana della lotta per la sopravvivenza e la politica della critica al colonialismo. Erano gli anni del positivismo, l’esaltazione del progresso scientifico ispirava il Naturalismo in Francia, il Verismo in Italia, plasmava il sentire dell’opinione pubblica e condizionava la stessa diplomazia. I leader tedeschi pensavano in termini darwiniani che la Germania, finalmente unita, fosse destinata a diventare “arbitro dei destini del mondo”. Bismarck era appena scomparso e il parlamento tedesco deliberò il potenziamento della flotta militare, incurante della raccomandazione del vecchio Cancelliere a tener conto del principio del soft power, gli Stati Uniti che “parlavano inglese” sarebbero stati naturali alleati della Gran Bretagna.

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento la potenza americana cominciava a misurarsi con il mondo: nel fatidico 1898 gli Stati Uniti dichiararono le isole Hawaii territorio americano (sarebbero diventate il cinquantesimo Stato nel 1959) e combatterono contro la Spagna per annettere anche Cuba nella propria sfera d’influenza. La nuova fase dei rapporti tra Stati Uniti e Vecchio Continente cominciò dunque con una guerra. La forza economica e militare dava agli americani “il diritto, che divenne rivendicazione, e divenne poi dovere” di entrare in tutte le questioni fino ad al­lora risolte tra le sole potenze europee. Politici e intellettuali europei consideravano l’espansionismo americano come minaccia alla sfera d’influenza che l’Europa aveva sul mondo: anche in questo caso una “lotta per la sopravvivenza” darwiniana.

Il rapporto tra Stati Uniti e Vecchio Continente si sarebbe trasformato nel corso del Novecento in un’alleanza for­midabile, cementata dalla partecipazione in due guerre e dalla ricostruzione. La nuova architettura diplomatica  rifletteva certamente la cornice del “paradigma di realismo” - che si fonda sulla “differenza strutturale tra le relazioni interne degli stati e le relazioni internazionali e che comporta la dicotomia tra sovranità nazionale e anarchia internazionale” (Il concetto di “anarchia internazionale” esprime l’assenza di un governo sovranazionale legittimato all’uso della forza), ma era temperato dal “fattore gerarchico” che legava gli Stati Uniti agli alleati europei (nel quadro della NATO) e dal “fattore equilibrio” nei confronti dell’altra superpotenza, l’URSS. (Sergio Pistone “Realismo politico, Federalismo e crisi dell’ordine mondiale”, in Il Federalista, numero unico 2016).

L’approccio trumpiano di “America First” cambia radicalmente le carte in tavola. Certo, come i suoi predecessori anche il nuovo presidente è convinto del ruolo eccezionale degli Stati Uniti del mondo ma, a differenza di tutti gli altri, intende garantire quel ruolo in modo radicalmente diverso. “Smettiamola di usare i soldi dei contribuenti americani per difendere gli alleati nel Pa­cifico o in Europa” dice Trump più o meno in questi termini. Ma per l’analista Ian Bremmer è un approccio che trasforma la forza americana “da carta vincente a imprevedibile jolly”, gli Stati Uniti rischiano di diventare la maggiore fonte d’incertezza mondiale.

Uno stravolgimento di prospettiva che interpella anche il Vecchio Continente. Trump ha usato toni bruschi con l’Unione Europea e con la Germania, di compiacimento per la Brexit. Al suo disegno strategico è del resto funzionale un’Europa divisa e una moneta “senza spada”, che non costituisca intralcio alla primazia del dollaro. Cercherà di approfittarne la premier inglese Theresa May, nel tentativo di spuntare i migliori accordi commerciali con un interlocutore che è prima di tutto un convinto difensore dell’industria e dei consumi nazionali (e la Gran Bretagna ha con gli Stati Uniti una bilancia commerciale positiva).

Come nell’apologo cinese, dove la disgrazia di una gamba rotta diventa la fortuna del giovane che evita il reclutamento alla guerra, il disimpegno americano potrebbe costituire l’occa­sione per affrontare le contraddizioni della casa comune euro­pea. La Germania, tornata grossomodo ai confini bismarckiani, è egemone in termini economici e tuttavia riluttante ad assumere il ruolo politico di ‘stato-federatore’, come fosse incapace di una visione di lungo termine che vada oltre gli angusti confini degli interessi nazionali.
L’unione monetaria ha assicurato un primo potere federale reale, ma ha amplificato i problemi nazionali al livello di contagio verso gli altri paesi in assenza di un “governo comune” che possa effettuare sintesi con­divise. Le divergenze politiche impediscono passi avanti nella risoluzione di questa patologica asimmetria, ma l’accettazione dello status quo ha effetti negativi anche nel breve termine.

Il vero rischio politico in Europa non è tanto negli appuntamenti elettorali del 2017 quanto nell’assenza di una credibile go­vernance dell’Unione, dove un referendum in Vallonia manda (quasi) all’aria un accordo commerciale con il Canada. Un’afasia che nuoce all’economia e rende l’Europa vulnerabile, alle prese con le questioni irrisolte del lavoro, del debito, degli immigrati, della sicurezza dei confini, dell’economia greca, delle relazioni con Russia e Turchia.
Come ha scritto recentemente Sergio Romano, o l’Europa riprende in mano il proprio destino oppure con l’attesa passiva della fine del mandato di Trump “avremo dato ragione ai suoi sprezzanti commenti contro l’Europa” (Corriere della Sera 9.2.2017).

  

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