“Serve una maggiore ambizione dell’Unione europea: chi comanda l’esercito comune?”
Intervista al Generale Vincenzo Camporini*


1 aprile 2022

Generale Camporini, di fronte al ritorno della guerra in Europa e a un nemico comune, l’Unione Europea dà un’impressione di maggiore compattezza rispetto al passato, anche nel campo della difesa. E’ sufficiente per far percepire a Putin che l’Unione Europea diventa un attore credibile?

No, non è sufficiente. Si tratta di un segnale estremamente importante, di un atteggiamento positivo, ma che deve essere seguito da fatti, perché le dichiarazioni non sono sicuramente sufficienti. Quali sono i fatti che devono seguire? La formalizzazione in qualche modo di obiettivi comuni condivisi da alcuni (non credo tutti) paesi membri dell’Unione europea, che formerebbero il nocciolo duro della politica estera comune. Una volta che questo viene consolidato e viene evidenziato a tutti gli attori, Putin compreso, a questo punto diventa naturale far seguire il secondo passo che è quello della costituzione di forze armate che siano in grado di sostenere questi obiettivi. Il grande equivoco del cosiddetto “esercito europeo” è che – non mi stancherò mai di ripeterlo – le forze armate sono lo strumento della politica estera. Se manca la politica estera comune, lo strumento non serve assolutamente a nulla. D’altronde, la storia ci dice la stessa cosa. Gli Stati Uniti si sono costituiti alla fine del ’700. Le forze armate degli Stati Uniti erano costituite esclusivamente dalle milizie dei singoli stati, e soltanto dopo la fine della guerra di secessione, all’alba del 1870, si è partiti con la costituzione di un esercito federale. Quindi l’unione politica, perché così deve essere, ha preceduto la costituzione di forze armate comuni. Ora, non è che per gli europei debbano passare cento anni ma, concettualmente, prima si fanno le fondamenta e poi si mette il tetto.

Molti leader politici chiedono di istituire una difesa europea con l’obiettivo di un’autonomia strategica dell’Unione, ma sembra che nei fatti ci si limiti a prospettare un miglior coordinamento delle forze armate nazionali. Gli Stati europei programmano un aumento della spesa militare nazionale invece di preparare un piano per arrivare a un bilancio europeo finanziato con risorse proprie che abbia un capitolo dedicato a una difesa comune. Che ne pensa?

Continuo sul tema della mia risposta precedente. Questo è inevitabile fino a che non ci sarà un nocciolo duro di politica estera comune che oggi non c’è, è inutile farsi illusioni. Ci troviamo insieme adesso per la reazione a quello che sta accadendo in Ucraina, ma ad esempio in Libia abbiamo da sempre un antagonismo tra Italia e Francia; nel Sahel abbiamo avuto operazioni condotte dai francesi con richiesta di supporto da parte degli altri paesi dell’Unione, con la Francia che a un certo punto decide di andarsene senza dire nulla a nessuno mettendo gli altri di fronte al fatto compiuto, praticamente facendo quello che hanno fatto gli americani in Afghanistan. Quindi, finché non c’è un accordo su questo, è chiaro che bisogna procedere dal punto di vista nazionale, ed è altrettanto chiaro che la guerra in Ucraina ha fatto cadere tutte le illusioni sul fatto che la pace fosse un dato acquisito e incontrovertibile in Europa. Purtroppo, la minaccia dell’uso della forza e l’uso della forza da parte della Russia hanno fatto sì che nei paesi occidentali ci rendesse conto che c’erano dei problemi. Ora, dal punto di vista tecnico, quali sono questi problemi? Uno dei problemi da affrontare (non il più grande) è il fatto che l’impiego delle forze armate da parte dei paesi europei in tempi recenti (ultimi trent’anni) è avvenuto principalmente in missioni a bassa intensità, il che ha fatto privilegiare le capacità che servono in questo tipo di operazioni, a scapito delle capacità che servono in conflitti ad alta intensità come quello che stiamo vedendo in Ucraina. Questo perché, essendo la coperta sempre più corta poiché tutti i paesi occidentali hanno voluto capitalizzare il cosiddetto dividendo della pace e hanno ridotto il loro impegno per le forze armate, la si è tirata dalla parte delle capacità non dico soft, ma meno hard. Adesso scopriamo che abbiamo delle deficienze a cui non si rimedia nell’arco di giorni, settimane o mesi, perché bisogna impostare dei programmi che sono molto lunghi ed onerosi e per i quali servono risorse. Questo spiega perché i singoli paesi si stanno attrezzando, fermo restando che quello che lei dice è assolutamente desiderabile, soprattutto per gente come noi che vede il futuro dei paesi europei soltanto in un’ottica federale e non in un’ottica sparpagliata come siamo oggi. Tutto questo, anche nell’ottica di conseguire quella benedetta autonomia strategica di cui si parla. Se vogliamo, posso approfondire questo concetto, che è abbastanza importante.

Prego, continui. Approfondiamo il concetto dell’autonomia strategia europea.

L’autonomia strategica è di per sé un concetto ambiguo, perché dipende da cosa vogliamo intendere. Vogliamo intendere che l’Europa si deve staccare dalla comunità euro-atlantica per poter agire in modo completamente autonomo e privo di qualsiasi collegamento politico con il resto della comunità atlantica (Canada, USA, Regno Unito)? Questa è una visione che in Francia trova parecchi adepti. Oppure possiamo vederla in un altro modo: noi siamo una comunità ampia che ha esigenze che non sono uguali per tutti e non sono uguali neanche nel tempo, quindi è ragionevole pensare che ci siano situazioni in cui l’alleanza in quanto tale non ha interesse a operare ma ci sia interesse da parte dei paesi dell’Unione. Se c’è la capacità di poter agire in questa circostanza, abbiamo l’autonomia strategica: non dobbiamo dipendere dall’alleato d’oltre Atlantico per fare le cose che interessano a noi. Questo è il mio concetto di autonomia strategica, che è abbastanza condiviso, anche se – ripeto – in alcuni ambienti, in particolare Oltralpe, la si pensa diversamente, ed è uno dei nodi da sciogliere. Sciolto questo, possiamo procedere.

Tutti ormai sappiamo che nel complesso gli europei spendono più della Russia per la difesa, ma la Russia è considerata un gigante militare mentre gli stati europei sono quasi insignificanti. Si discute quindi di una razionalizzazione delle spese militari, per evitare duplicazioni e sprechi di risorse pubbliche. Questo “miglior coordinamento tra stati” che non ne mette in discussione la competenza ultima sui temi militari può funzionare quando bisognerà prendere decisioni che scontentano qualcuno, come tagli di acquisti inutili o la chiusura di linee di produzione belliche?

Cominciamo da un’osservazione sulla prima questione: gli europei spendono più della Russia però la Russia apparentemente ha delle capacità migliori di quelle che possiamo esprimere noi. Facciamo un piccolo paragone. Ci sono dieci famiglie e poi ce n’è un’altra. Queste dieci famiglie hanno delle spese annuali per un importo complessivo pari a X: ogni famiglia spende un decimo di X. L’undicesima famiglia spende la metà di X. Vuol dire che spende in modo cinque volte migliore di come spendono le precedenti dieci famiglie. Questo è quello che accade nella difesa, detto in modo semplice. Se noi coordiniamo le spese comuni in modo razionale, evitiamo le duplicazioni e le sovrapposizioni, andiamo a fare la spesa nello stesso supermercato tutti insieme e spuntiamo un prezzo migliore, se facciamo questo otteniamo un risultato che non stiamo ottenendo andando tutti separati. Fuori di metafora, noi abbiamo spese militari che in ogni paese coprono tutto lo spettro delle necessità, a partire dagli alti comandi, per passare alle strutture logistiche, per passare alle strutture addestrative. E’ chiaro che questo moltiplica le spese, ma non moltiplica il rendimento. Se noi riuscissimo a razionalizzare queste spese, potremmo ottenere risultati sicuramente migliori della famiglia che spende la metà di X e quindi avremmo una capacità militare notevole e adeguata ai bisogni. E’ chiaro che questo presuppone tutta una serie di decisioni molto importanti. Lei ha citato la questione degli approvvigionamenti. E’ chiaro che abbiamo un sistema industriale in Europa che è sparpagliato, per usare un eufemismo. C’è una frammentazione assoluta dei sistemi produttivi, con delle duplicazioni che costituiscono dei costi enormi e impossibilità di ottenere delle economie di scala. Sono dati che circolano in rete: noi abbiamo diciotto mezzi blindati mentre gli Stati Uniti ne hanno solo due. I due prodotti negli Stati Uniti sono stati prodotti in diecimila esemplari; ciascuno dei diciotto in Europa è stato prodotto in cento esemplari. Questi numeri possono non essere precisissimi, ma è per rendere l’idea. Quanto costa sviluppare un oggetto che produco in 10.000 esemplari e quanto costa la produzione in serie di 10.000 esemplari? E quanto costa produrre artigianalmente solo cento esemplari? Non c’è paragone. Adesso diamo dei numeri veri. Un Eurofighter è una macchina bellissima; io sono uno dei tanti padri dell’Eurofighter. Viene a costare intorno ai 120 milioni di euro. Un F35, di una generazione successiva, quindi con tutta una serie di cose in più che può fare, che però viene prodotto in 3.500/4.000 esemplari, oggi ha un costo flyaway di 85 milioni di dollari. Questo è perché noi non abbiamo avuto la possibilità di fare delle economie di scala. In Europa siamo sempre a litigare per questioni industriali, e non è vero che se noi razionalizzassimo tutto avremmo dei danni dal punto di vista occupazionale, perché si tratterebbe semplicemente di specializzare le singole imprese che hanno delle nicchie di eccellenza sulle loro nicchie di eccellenza senza far loro fare altre cose che possiamo far fare ad altri in modo più economico, nel quadro di un’Unione europea, perché a questo punto avremmo dei problemi di approvvigionamento nel senso che tutti avrebbero bisogno di tutti gli altri, il che secondo me può costituire una molla potentissima per progredire nell’integrazione anche politica.

Mentre si discute di difesa europea, gli Stati pensano di fatto ad aumentare il loro coordinamento nel quadro Nato, che rimane indispensabile per garantire la sicurezza. La forza di intervento rapido europea approvata con lo Strategic Compass, se realmente sarà istituita, a chi risponderà? E con gli strumenti cui sta pensando in questo momento l'UE, è realistico pensare che oltre la forza di rapido intervento possa nascere una vera forza militare europea?

Faccio una piccola premessa sullo Strategic Compass, che è un bel documento, molto articolato, molto dettagliato, che ha due grandi difetti. Il primo difetto è che a un certo punto si dice che tutto è basato sulla regola dell’unanimità, e questo fa sì che, giunti alla fine di questo bel documento, leggendo quella riga, uno abbia la tentazione di prenderlo e buttarlo, perché con l’unanimità noi abbiamo avuto una miriade di prove che non si va da nessuna parte. Il secondo punto di insoddisfazione è questa grancassa su questa forza di intervento di 5.000 uomini che Borrell indica come una ambizione iniziale per proseguire poi nella futura integrazione. Facciamo un po’ di storia recente. Nel 1999 a Helsinki venne approvato lo Helsinki Headline Goal durante la riunione del Consiglio che si tenne durante il semestre di presidenza finlandese. Lo Helsinki Headline Goal, di cui io sono uno dei quattro autori insieme a un francese, un tedesco e un inglese, prevedeva una forza di intervento pronta entro quindici giorni di 60.000 militari più i complementi necessari dal punto di vista navale ed aereo, per operare per un periodo di sostenibilità di un anno almeno in un raggio d’azione di 4.000 km da Bruxelles. Abbiamo messo 4.000 km perché abbiamo voluto essere molto espliciti sul fatto che l’Unione europea non può avere una ambizione globale e si deve occupare del suo giardino: Africa, Medio Oriente, Caucaso, Russia, e così via. Questa era l’ambizione che avevamo all’epoca, ammaestrati da quello che era accaduto nei Balcani. Ci fu una unanimità nel riconoscere che questa era una ambizione adeguata e fattibile. Poi le cose sono andate nel verso sbagliato, lo Helsinki Headline Goal non è mai stato realizzato e nel 2004 qualcuno si inventò i Battlegroup dell’Unione europea, formati da un battaglione rinforzato con determinate capacità. Stiamo parlando di unità che oscillano tra i 1.500 e i 3.000 uomini grossomodo. I Battlegroup sono stati formalmente costituiti nel senso che si definì una turnazione tra i vari paesi di quello che doveva essere messo a disposizione dei Battlegroup. Ebbene, i Battlegroup non sono mai stati impiegati. Adesso arriviamo ai 5.000 uomini. Faccio rispettosamente notare che il Kossovo è grande poco più dell’Umbria. La fase calda dell’attività in Kossovo è finita nel 1999, quasi 23 anni fa. Per mantenere la pace in quel territorio, la Nato tutt’ora schiera 3.800 uomini. Vuol dire che questa grossomodo è l’ambizione che ha l’Unione europea? Se è così, mi permetto di dissentire. Non può essere così, e quindi lo Strategic Compass sicuramente deve avere più ambizioni sia dal punto di vista della capacità decisionale sia dal punto di vista dell’entità. La capacità decisionale ha a che fare con quello che lei ha detto: chi comanda? Bisogna definire anche una catena di comando univoca, perché, se si decide di impiegare le forze armate, queste non possono aspettare le deliberazioni di un’assemblea ogni volta che bisogna decidere qualcosa. Quindi ci vuole una chiara identificazione delle autorità che su base sovranazionale possano decidere di impiegare l’uso della forza e come impiegarlo.

Senza una vera politica estera europea - non un semplice coordinamento tra le diverse politiche estere, anche se si dovesse passare a votare a maggioranza nel consiglio in vista di decisioni comuni - come pensa possa nascere una vera capacità di azione europea? In definitiva, non crede - come Altiero Spinelli ed Alcide De Gasperi al tempo della Comunità Europea di Difesa - che per creare una difesa europea si debba porre la questione fondamentale di dare all’Unione Europea un governo federale democraticamente legittimato, a cui la forza armata europea dovrà rispondere?

E’ alla base del mio pensiero. Io sono un federalista convinto; sono contento di aver lavorato a questo progetto per tutti questi anni; sono frustratissimo per il fatto che non siamo arrivati ancora a qualche cosa di concreto. Io faccio sempre un’analogia storica: noi in Europa oggi siamo nella situazione in cui si trovava l’Italia nel 1848, avevamo un paese diviso in staterelli dove si viveva bene secondo i criteri dell’epoca. Poi c’erano quattro scalmanati che volevano l’unità d’Italia, ma questi che grilli avevano per la testa? “Si sta benissimo qui a Milano, si sta benissimo qui a Reggio Emilia”. Peccato che i destini di Milano, di Reggio Emilia e di tutti gli altri staterelli che avevamo non venissero decisi a Milano, Reggio Emilia, Ferrara, Firenze… Venivano decisi a Vienna, a Parigi, a Londra. Oggi siamo nella stessa identica situazione, perché nel quadro globale anche la grande Germania è uno staterello. Siamo tutti staterelli dove si vive benissimo. Siamo sicuramente lo spicchio di mondo dove si vive meglio. Ricordiamoci che, con tutte le difficoltà che ci sono, il 55% della spesa sociale avviene nei paesi europei, quindi abbiamo una società che si cura delle problematiche della gente, dei problemi dovuti alla disparità delle risorse e così via, quindi viviamo benissimo qui. Peccato che quello che accade qui non lo decidiamo noi ma lo decidono a Pechino, a Mosca e a Washington. La crisi economica del 2008 nasce negli Stati Uniti. Noi l’abbiamo subita come una tempesta, ma non nasce da noi. La crisi dell’Ucraina viene da Mosca. Lasciamo perdere le influenze cinesi, che meriterebbero un libro a parte. Questo è chiaro: se continuiamo a essere litigiosi e a non volere l’integrazione, a voler difendere a tutti i costi il nostro particulare, noi siamo destinati a essere irrilevanti e a subire quello che decideranno gli altri. E a me questo non sta bene.

Ed è per questo che noi federalisti ci battiamo da qualche decennio. Grazie al Generale Camporini.


* Arruolato in Accademia Aeronautica nel 1965, il generale Vincenzo Camporini ha percorso tutti i gradi della carriera militare fino a ricoprire la massima carica di Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica (2006-08) e di Capo di Stato Maggiore della Difesa (2008-11). Camporini tratta anche in veste di studioso e accademico le più attuali tematiche della politica internazionale, con particolare riguardo alla dimensione politico-militare dell'Unione europea.

 

  

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