La questione di Taiwan, le ambizioni della Cina e la competizione militare in Asia sono un rischio per la sicurezza globale.
L'estremo Oriente è un'area in cui gli interessi delle grandi potenze si incontrano direttamente e si confrontano direttamente per ridefinire i rapporti di potere a livello globale.
In particolare l'isola di Taiwan è un punto nodale, al centro degli interessi della Repubblica Popolare Cinese e degli Stati Uniti.
L'isola, che era rimasta in un limbo giuridico dopo che il Giappone ne aveva lasciato la sovranità nel 1945 a seguito della resa agli Alleati, divenne nel 1949 al termine della guerra civile cinese il rifugio delle forze della Repubblica di Cina, sotto il controllo del partito nazionalista Kuomintang, in ritirata dal continente. Protette dalla forza navale americana, le forze fedeli al generalissimo Chiang Kai-shek si arroccarono sull'isola e sui vicini arcipelaghi di Penghu, Matsu, Kinmen trasportando coloni e risorse (l'oro della banca centrale).
Sul continente il Partito Comunista Cinese fondava la Repubblica Popolare Cinese.
Fino al 1971 la Cina internazionalmente riconosciuta era quella con sede a Taiwan, membro permanente con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. L'amministrazione Nixon, vedendo l'opportunità di sfruttare le divisioni tra Mao e l'Unione Sovietica, e considerando che la Repubblica Popolare si era dotata dell'arma termonucleare, portò al riconoscimento internazionale di Pechino a scapito di Taiwan.
Da quel momento il governo di Taipei, spogliato del rango internazionale, continuava la propria esistenza come membro non formale della comunità internazionale, partner commerciale privilegiato degli USA e in seguito una delle potenze economiche emergenti degli anni '80.
Per i decenni successivi le relazioni tra le due entità politiche sullo stretto sono state determinate dalla politica dell'unica Cina: entrambi i governi erano concordi sul fatto che esistesse un'unica Cina, ma discordavano su quale governo la rappresentasse.
I due governi, formalmente ancora in conflitto, sono stati in una situazione di stallo militare, intervallata da vari episodi più o meno gravi (le due Crisi dello Stretto e gli innumerevoli sconfinamenti), stabilizzata dalla forte presenza navale americana che continua a proteggere l'insularità di Taiwan sulla base legale dei Taiwan relations Act/defense Act approvati dal Congresso per finanziare il proprio dispiegamento di risorse e l'armamento di Taiwan.
Dal 1987, con la fine del regime di legge marziale, il potere a Taiwan è stato mantenuto dal partito KMT, che ha egemonizzato le elezioni parlamentari ed espresso i presidenti fino al 2016, quando si è avuto il successo del Partito Progressista Democratico (DPP) e l'elezione a presidente di Tsai Ing-wen.
La visione del DPP dei rapporti con Pechino è diametralmente opposta alla linea seguita dal KMT: anziché perseguire un negoziato per la riunificazione delle due entità cinesi, il DPP enfatizza la peculiarità politica taiwanese e punta a un riconoscimento internazionale della statualità dell'isola e a un netto rifiuto dell'imperialismo del Partito Comunista Cinese.
Tsai Ing-wen è stata rieletta per un secondo mandato nel 2020 sulla base della stessa piattaforma.
Dal punto di vista del regime di Pechino, la conquista dell'isola e la riunificazione della Cina è un punto imprescindibile della propria strategia a lungo termine per assurgere definitivamente a grande potenza, e il Presidente Xi Jinping, la definisce "inevitabile".
Per Xi Jinping la strategia del "Sogno Cinese" deve essere completata entro il 2049, e il ritorno dell'isola sotto il controllo di Pechino deve avvenire entro quella data.
Dopo il fallimento dell'incorporazione pacifica di Hong Kong nella Cina comunista, in base alla formula "un paese, due sistemi", è impensabile una riunificazione di Taiwan al continente che non comporti la soppressione delle libertà civili e politiche e la messa in discussione delle libertà economiche.
Non solo l'arcipelago è l'ultimo frammento di Cina non ancora riconquistato, tra l'altro sede di un potere tanto cinese quanto antagonista, ma è anche un baluardo geografico all'apertura di Pechino verso il mare aperto: gli stati confinanti, Corea, Giappone, Filippine, Malesia costituiscono una barriera naturale tra i mari interni cinesi e gli spazi oceanici del Pacifico.
Non a caso i piani di incremento delle spese militari e di modernizzazione delle forze armate dell'Esercito di Liberazione Popolare sono incentrati sulla capacità di proiezione aeronavale (mimando i gruppi da battaglia delle portaerei americane) e sbarco anfibio.
Il contesto estremo orientale è diventato negli ultimi anni decisamente più ostile, con la proliferazione nucleare in Corea del Nord, le esercitazioni navali congiunte di Russia e Cina, le ripetute rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale (tanto sulle isole quanto sulla superficie stessa del mare) supportate da un crescente uso della forza.
Nella National Security Strategy of the United States of America del 2017, sotto la presidenza Trump, Russia e Cina erano indicate esplicitamente come "potenze revisioniste". Sono Stati insoddisfatti dello status quo internazionale e fortemente motivati al cambiamento e la recente esperienza della guerra in Ucraina non fa che confermare quanto il rischio del ricorso alla forza per imporre l'agenda politica sia elevato.
Nel secondo dopoguerra il sistema di alleanze costruito dagli Stati Uniti era improntato al containment del blocco sovietico con alleanze strutturali e accordi bilaterali: in Asia sud orientale la SEATO, organizzata in maniera simile alla NATO ma di gran lunga meno strutturata, per due decenni organizzò la difesa collettiva dell'area per poi infrangersi sulle divergenze tra stati nella condotta della guerra del Vietnam. Sostanzialmente, nell'area Asia-Pacifico la sicurezza collettiva è sempre stata garantita dagli accordi bilaterali degli Stati Uniti e subordinata agli interessi di quest'ultimi.
Una novità di rilievo è l'implementazione dell'accordo AUKUS siglato tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti nel 2021.
L'accordo, siglato in forma di trattato trilaterale è incentrato sulla fornitura di sottomarini nucleari alla marina australiana, dopo il fallimento delle trattative per la fornitura da parte della Francia.
Il trattato si è allargato ai temi della sicurezza navale, cybersecurity e missilistica e di recente ha suscitato l'interesse della Corea del Sud.
Il governo di Seul, sotto la spinta del riarmo navale cinese e della proliferazione nucleare in Corea del Nord, già aveva valutato di dotarsi di sistemi sottomarini a propulsione nucleare e vede nell'accordo l'opportunità per farlo.
La libertà dei mari e la sicurezza della navigazione sono aspetti vitali per la sopravvivenza di tutti gli Stati dell'area, strutturalmente dipendenti dall'importazione di materie prime e dal commercio marittimo. Non è da escludere che l'accordo possa attrarre altri partner come il Giappone o, ipotesi più remota, la stessa Taiwan.
Nel confronto tra autoritarismo e democrazia, tra piccole e grandi potenze, in mancanza di un vero sistema di sicurezza collettivo regionale, l'equilibrio fragilissimo è garantito solo dalla corsa agli armamenti. Per quanto ancora?