Da molti anni ormai Ungheria e Polonia sono diventate il prototipo di una nuova forma di governo che sta cercando di insinuarsi nel panorama del costituzionalismo europeo: la democrazia illiberale. Si tratta di un modello istituzionale in cui, pur continuandosi a celebrare elezioni periodiche a cui partecipano le opposizioni, il partito di governo ha smantellato lo stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri al fine di ottenere un vantaggio permanente che gli permetta di restare al potere. Questo è quanto è avvenuto in Ungheria, dove dal 2010 governa il partito Fidesz di Viktor Orbán, e in Polonia, dove il partito ultraconservatore PiS (Libertà e giustizia) è al potere dal 2015 in seguito alla vittoria alle elezioni presidenziali e parlamentari.
Il più importante argine alla deriva illiberale di questi due Paesi negli ultimi anni è stata l’Unione europea. Venendo meno il principio dello stato di diritto a livello nazionale, l’Unione ha cercato di imporre la forza del suo diritto onde censurare i comportamenti e le riforme incompatibili con i valori e gli standard normativi europei.
Il bilancio della contrapposizione tra UE e democrazie illiberali va letto in chiaroscuro. Di certo, la reazione dell’Unione si è fatta sentire a Budapest e Varsavia, tanto che i governi illiberali si sono fortemente scagliati contro le istituzioni europee, in particolare la Commissione, sviluppando una narrazione vittimista e cercando di svincolarsi dagli obblighi derivanti dal diritto UE. Allo stesso tempo, l’Unione è intervenuta tardi e con lentezza, non riuscendo a adottare misure risolutive in grado di mettere del tutto in crisi le forze politiche autrici della svolta illiberale. In generale, ci troviamo davanti ad un confronto ancora aperto, la cui posta in gioco non è soltanto il futuro della democrazia polacca e ungherese, ma l’identità stessa dell’Unione: se quest’ultima non riuscisse a prevalere sui nuovi autocrati locali, che contestano apertamente il primato del diritto UE e violano i suoi valori, il processo di integrazione europea entrerebbe in una crisi irreversibile. La forma di governo illiberale potrebbe poi diventare un modello per altri Paesi dell’Europa orientale e occidentale, dove già governano o si candidano a governare forze politiche alleate di Fidesz e di PiS.
Per capire le effettive chance di vittoria dell’Unione nel confronto con le democrazie illiberali, è necessario considerare gli strumenti attualmente a disposizione delle istituzioni europee per far fronte alle violazioni dello stato di diritto negli Stati membri e come esse li stiano usando.
Notoriamente, l’uso della procedura ad hoc prevista dall’art. 7 TUE secondo cui un Paese membro che violi i valori dell’Unione può essere privato di alcuni suoi diritti, tra cui quello di votare in seno al Consiglio, si è dimostrato una chimera. Notoriamente, la sua attivazione richiede l’esistenza di una forte volontà politica da parte degli Stati membri, da manifestarsi con delle ampie maggioranze o addirittura l’unanimità, che ovviamente non si è manifestata. Le procedure lanciate nel 2017 e nel 2018 nei confronti di Polonia e Ungheria, rispettivamente su iniziativa della Commissione e del Parlamento, si sono subito arenate nel Consiglio davanti alle divisioni tra governi “rigoristi” e “comprensivi”.
Di grande importanza è stata invece la reazione della Corte di Giustizia che grazie ad una certa lettura del Trattato (art. 19 TUE) a partire dal 2018 ha imposto uno standard europeo di indipendenza della magistratura nazionale fondato sulla tutela dei principi di inamovibilità dei giudici e di separazione dei poteri. Ciò ha permesso la pronuncia di diverse sentenze di condanna delle riforme della giustizia polacca, sia su iniziativa della Commissione, sia di giudici nazionali che hanno cercato di resistere alla deriva illiberale del Paese. La Corte è intervenuta molto duramente ordinando di fatto la disapplicazione delle riforme polacche incompatibili con gli standard UE, il che ha incluso l’obbligo per i giudici ordinari di disattendere le decisioni della loro Corte costituzionale e della Corte suprema polacca che siano contrarie al diritto europeo. La sponda dell’Unione alla disobbedienza civile contro l’ordine illiberale ha fortemente indispettito le autorità polacche che nell’ottobre 2021 hanno spinto il Tribunale costituzionale di Varsavia a pronunciarsi contro il primato del diritto europeo, affermando l’incompatibilità di alcune norme dei Trattati UE con la Costituzione.
L’ultimo strumento a disposizione dell’Unione per reagire alla deriva illiberale di Polonia e Ungheria è il Regolamento del dicembre 2020 relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione. Su proposta della Commissione, il Consiglio può a maggioranza qualificata bloccare o ridurre l’accesso di uno Stato membro ai fondi del bilancio UE, là dove gravi violazioni dello stato di diritto rischino di danneggiare gli interessi finanziari dell’Unione. Dopo una lunga esitazione, lo strumento è stato attivato finalmente nei confronti dell’Ungheria: lo scorso dicembre il Consiglio ha congelato € 6,3 miliardi di fondi di coesione nella misura in cui il Paese non è stato in grado di soddisfare le richieste della Commissione e di adottare misure significative di rafforzamento dello Stato di diritto. Similarmente, anche i fondi destinati alla Polonia sono stati parzialmente sospesi – circa € 32 miliardi nel quadro di Next Generation EU – dal momento che il governo non ha ancora soddisfatto le richieste della Commissione in relazione alla riforma della magistratura. Da canto loro, vedendosi privati di importanti risorse del bilancio UE, i governi illiberali di Budapest e Varsavia hanno in parte preso impegni formali con l’Unione per riformare il loro sistema istituzionale, in parte hanno preferito minacciare l’uso del diritto di veto in altri dossier, onde ricattare le istituzioni europee.
Evidentemente, i punti di forza e di debolezza nella risposta europea alla crisi illiberale di Polonia e Ungheria riflettono anche le contraddizioni interne al processo di integrazione. Guardando agli sviluppi degli ultimi anni, è chiaro che i passi che l’Unione ha fatto nella direzione di una maggiore sovranità condivisa e costituzionalizzazione del suo ordinamento – la creazione di debito europeo, l’aver reso accessibili i fondi del bilancio UE solo ai Paesi che rispettano lo stato di diritto, l’interpretazione estensiva dei Trattati UE ad opera della Corte di Giustizia - possono rendere più solido l’argine alla deriva autoritaria degli Stati membri. Gli strumenti classici della cooperazione intergovernativa, cioè contromisure adottate all’unanimità, come quelle previste dall’art. 7 TUE, si dimostrano anche in questo campo del tutto inadeguati.
Ecco allora che l’attuale momento politico offre un’opportunità per superare lo stallo nel conflitto tra Unione e democrazie illiberali sulla questione dello stato di diritto. L’apertura del processo di riforma del Trattati, principale richiesta della Conferenza sul futuro dell’Europa, rappresenta un’occasione straordinaria per rendere insostenibile la permanenza delle democrazie illiberali in seno all’Unione. Un negoziato ambizioso sulla riforma dell’UE farà necessariamente emergere in modo chiaro l’incompatibilità tra le aspirazioni dei cittadini ad un’Unione sempre più sovrana e le resistenze di governi, quali Polonia e Ungheria, desiderosi di emanciparsi dai valori e dai vincoli europei. I Paesi decisi a rafforzare l’Unione, rendendola più capace di affrontare le molte crisi che stanno colpendo i suoi cittadini, non potrebbero che prendere le distanze da quei governi ormai ai limiti della legittimità democratica che continuano a promuovere una narrazione nazionalista e vittimista nei confronti delle richieste di Bruxelles. A loro volta, i partiti di governo in Ungheria e Polonia, davanti al rischio di venire definitivamente isolati, dovrebbero scegliere se rientrare nella legalità europea accettando i vincoli della sovranità UE, oppure spiegare alle loro opinioni pubbliche la decisione di uscire nei fatti dal processo di integrazione, privandosi dei vantaggi che ne derivano.
Accelerare il processo di integrazione attraverso una riforma dei trattati per isolare i governi illiberali ed obbligarli ad una scelta sarebbe tanto più opportuno oggi alla luce delle divisioni che sono recentemente emerse tra Polonia e Ungheria. Se è vero, infatti, che fino a pochi anni fa i due governi si sostenevano fedelmente a vicenda nella resistenza alla “tirannia UE”, oggi la guerra tra Ucraina e Russia ha fatto emergere la diversità strategica delle rispettive leadership di governo, ovvero l’opposizione degli interessi a medio e lungo termini di politica estera.