Le midterm elections, tenutesi a novembre 2022, negli USA cadono a metà del mandato presidenziale. Si è votato per eleggere tutti i 435 deputati della Camera e 34 senatori su 100 del Senato; inoltre, sono stati votati anche 36 dei 50 governatori degli Stati. Al Senato i risultati, dopo il ballottaggio per il seggio della Georgia, hanno premiato i democratici, che adesso hanno un senatore in più rispetto a prima delle elezioni potendo contare ora su 51 voti, senza contare quello della vicepresidente Kamala Harris, ottenendo così la maggioranza. Alla Camera invece i risultati sono stati opposti: i repubblicani hanno ottenuto la maggioranza con 222 seggi rispetto ai 213 dei democratici. Un dato significativo è quello relativo all’affluenza: in un Paese dove da decenni è in calo si è registrata la seconda affluenza più alta in 50 anni, inferiore soltanto al dato del 2018. Si è recato alle urne poco meno del 50% degli aventi diritto. I sondaggi prevedevano una vittoria repubblicana che non è avvenuta al Senato mentre alla Camera ha avuto un distacco minore di quello previsto. Storicamente al voto di medio termine il partito al governo tende a perdere in maniera evidente, invece i democratici hanno limitato il fenomeno con un significativo apporto dei voti delle donne e dei giovani. Nelle ultime settimane i candidati democratici hanno sfidato spesso gli avversari sui temi economici sottolineando che i repubblicani vorrebbero tagliare pensioni e sanità. Hanno così costretto i repubblicani ad esporre i loro programmi e non solo le loro critiche sull’operato del Governo democratico. Inoltre i democratici hanno tratto vantaggio da temi quali l’aborto, la preoccupazione per la democrazia e per un possibile ritorno di Trump alle elezioni. Tutti fattori che hanno portato a votare molta gente che non lo avrebbe fatto. Si nota inoltre che ha contato molto la qualità dei candidati, oltre alla loro appartenenza politica, insieme all’incapacità di molti repubblicani di definire al meglio il loro programma. Ad esempio Brian Kemp, candidato repubblicano a governatore, ha ottenuto un risultato migliore di quello del candidato Walker dello stesso partito, grazie alla sua capacità di rivolgersi ai moderati. Tra i repubblicani escono particolarmente sconfitti i candidati sostenuti dall’ex Presidente Trump che ha scelto principalmente personaggi con poca esperienza politica non in grado di dialogare con gli elettori moderati. Di conseguenza sembra arretrare anche l’influenza di Trump perché il risultato potrebbe ridurre la necessità del Partito Repubblicano di ricorrere a lui dimostrando così che il suo metodo nel lungo periodo è deleterio. Da alcuni sondaggi infatti il 60% degli elettori risulta contrario alle politiche di Trump, circa la stessa percentuale è contraria al nazionalismo di “America first”. Sono inoltre emersi nuovi personaggi nel partito che non intendono appoggiare una sua ricandidatura alla Casa Bianca. Trump prevedibilmente non ha accettato il risultato elettorale e il fatto che la sua presa sull’elettorato è ancora forte ma si è indebolita, per questo ha esternato forti dichiarazioni. Ad esempio, riguardo alla sconfitta del candidato repubblicano in Arizona, ha dichiarato sul suo social Truth che la colpa sarebbe dell’inettitudine e della corruzione di alcuni funzionari, pertanto, secondo lui dovrebbe essere convocata una nuova elezione. In generale l’ex Presidente USA accusa sia influenze esterne sia divisioni interne al partito per non aver riportato una schiacciante vittoria. Intanto diversi esponenti repubblicani invitano ad un rinnovamento in vista delle presidenziali, come il Senatore Josh Hawley che auspica la costruzione di qualcosa di nuovo riferendosi sia al partito sia alla necessità di allontanarsi dalla figura di Trump. Anche alcuni network solitamente vicini a Trump si sono schierati contro il possibile candidato alle presidenziali, sottolineando così che il futuro per il Partito Repubblicano è ora più incerto. Questi potrebbero essere segnali di un percorso per cominciare una fase post Trump in vista delle prossime elezioni presidenziali, un percorso che non sarebbe esente da aspre lotte interne. Il candidato favorito alle primarie dai repubblicani anti Trump potrebbe diventare Ron De Santis, rieletto governatore della Florida. Il governatore è considerato un personaggio politicamente spregiudicato, capace di unire politiche di vecchio stampo anche anacronistiche con la capacità di parlare all’elettorato influenzato dal populismo. Dall’altra parte la vittoria al Senato è un segnale buono per il Presidente Biden all’interno del suo partito, visto che alla vigilia delle elezioni i sondaggi davano la sua popolarità sotto il 40% e questo aumentava il timore per l’avanzata repubblicana. Il Presidente si è dichiarato soddisfatto per l’affluenza alle urne e per quella che ha rivendicato come una vittoria per una democrazia che è stata messa alla prova negli ultimi anni ma ha dimostrato di resistere ancora. Biden ha anche ammesso che i risultati non rappresentano una totale approvazione della sua amministrazione, evidenziando le difficoltà degli ultimi anni, per questo ha invitato i repubblicani ad una maggiore collaborazione. Con la votazione sono anche emerse le contraddizioni presenti all’interno del Partito Democratico, ad esempio con il progressista Bernie Sanders, con Alexandria Ocasio-Cortez che ha idee più socialiste e con la vicepresidente Kamala Harris che appare più emarginata. Una possibile ricandidatura di Biden potrebbe portare a perplessità interne al partito in particolare nella parte più liberal che spinge per un rinnovamento. Per quanto riguarda un’eventuale ricandidatura di Trump, il Presidente Biden si è detto pronto ad attuare tutti gli strumenti costituzionali per evitare la sua rielezione con un chiaro riferimento alle inchieste che vedono coinvolto l’ex Presidente come quella sull’assalto al Campidoglio. Sulla propria ricandidatura, Biden ha preso tempo per una decisione che - ha assicurato - verrebbe presa solo con il consenso del Partito senza influenze dovute alla ricandidatura di Trump.
Da questo risultato elettorale si può trarre una considerazione sul fatto che gli Stati Uniti sono ancora un paese politicamente diviso dove il confronto tra maggioranza e opposizione rischia di diventare un duro scontro. La mancata realizzazione di un vero multipolarismo, una globalizzazione non adeguatamente governata, il tentativo di riaffermare la propria egemonia in uno scenario globale conflittuale, un libero mercato mondiale non gestito hanno provocato anche negli Stati Uniti problemi economici, disuguaglianze sociali e larghi strati di povertà. Non si può dimenticare che molti problemi sulla scena mondiale sono anche dovuti alla mancanza di uno Stato federale europeo che possa essere un partner solido per gli USA nel difficile scenario mondiale. Tutto questo ha portato all’emergere di tendenze che non vedevano nella rappresentanza delle istituzioni democratiche la soluzione alle esigenze dei cittadini e ad un conseguente rischio di crisi della democrazia. Il risultato delle elezioni sembra essere un segnale di ripresa da parte dell’elettorato democratico e moderato che deve essere sostenuto da un rinnovamento delle politiche e da un rafforzamento delle componenti democratiche, liberali e moderate nei partiti. La perdita della Camera, che ha vissuto un lungo stallo nella fase di elezione di un nuovo speaker, potrebbe portare forti scontri al Congresso, anche se già prima delle elezioni il programma di governo appariva rallentato da uno stallo legislativo dopo l’approvazione di numerosi pacchetti economici. L’amministrazione Biden si dovrà concentrare sulla politica estera, in particolare su come agire nel conflitto tra Ucraina e Russia, e sul capire e affrontare le cause dell’inflazione. Saranno necessarie azioni politiche e amministrative a lungo termine per decidere quale direzione dare al Paese. Pensando al rischio di crisi della democrazia americana non possiamo dimenticare che secondo l’Organizzazione mondiale Freedom House oggi solo il 20,3% della popolazione mondiale vive in libertà, il 41,3% vive in regimi parzialmente autoritari, mentre dal 1997, il 38,4% vive in totale assenza di libertà. Questi segnali devono essere un monito per i paesi dell’Unione per approfondire la loro integrazione creando gli strumenti necessari ad affrontare le esigenze dei cittadini in una situazione mondiale sempre più complessa. Solo così è possibile salvaguardare le istituzioni democratiche dal pericolo di derive populiste e nazionaliste e costituire un partner politico solido per gli USA e gli altri paesi coinvolti nello scenario multipolare.