La violenta dissoluzione della Jugoslavia durante gli anni ‘90 del 1900 ha prodotto degli strascichi che si protraggono tuttora, a diversi decenni di distanza.
Oltre alla questione linguistica, dove la politica ha creato quattro lingue (serbo, croato, bosniaco e montenegrino), laddove la linguistica afferma che ne esiste solo una, ricordiamo le contese territoriali tra Croazia e Slovenia (dal 2023 entrambe in Schengen) e le tensioni tra le tre etnie “costituenti” della Bosnia ed Erzegovina, con i serbi di Bosnia ed Erzegovina che negli ultimi anni hanno espresso posizioni via via sempre più propendenti alla secessione, all’indipendenza, all’allontanamento dall’UE e alla vicinanza alla Serbia.
Essere filo-serbi nel 2022 significa anche essere filo-russi, in quanto il Presidente serbo, Aleksandar Vučić, in carica dal 2017 dopo tre anni da Primo Ministro, è sicuramente annoverabile tra i principali alleati di Putin in Europa. Prova ne sono l’assenza di sanzioni nei confronti della Russia sia dopo l’annessione della Crimea nel 2014 sia dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022; nonché una lunga lista di dichiarazioni e incontri amichevoli e collaborazioni economiche ma anche politiche, non ultimo l’accordo firmato nel 2021 sulla costruzione congiunta di un centro di ricerca sull’energia nucleare ma soprattutto quello siglato nel settembre del 2022 che prevede “reciproche consultazioni” in materia di politica estera.
Inoltre, nonostante negli ultimi anni l’UE sia stato il principale investitore straniero in Serbia, nel 2022 la Cina ha effettuato il sorpasso grazie soprattutto agli investimenti in infrastrutture come da progetto della “nuova via della seta” - e questo dice molto dell’attuale collocazione diplomatica del governo serbo.
Tali rapporti con Russia e Cina, specialmente al giorno d’oggi, rappresentano uno dei principali fattori di allontanamento (diplomatico) di Belgrado dall’Europa, ma non sono i soli. Dopo diversi anni, la tensione tra Kosovo e Serbia ha toccato proprio nel 2022 il suo apice dalla fine della guerra.
Il conflitto armato fra Kosovo e Serbia terminò solo nel 1999 grazie all’intervento della NATO, rappresentando quindi l’ultimo atto delle guerre jugoslave. Il Kosovo fu quindi posto sotto la protezione dell’ONU fino al febbraio 2008, quando promulgò una dichiarazione unilaterale di indipendenza che a oggi è stata riconosciuta da oltre 100 Stati membri dell’ONU, ma da non tutti gli Stati membri dell’UE e di certo non dalla Serbia, dove la questione non è mai stata neanche presa in considerazione da nessun governo.
Il 31 luglio 2022 è scaduto un accordo siglato nel 2011, e più volte prorogato, che riconosceva la validità delle targhe automobilistiche serbe nel Kosovo del Nord, una provincia kosovara a maggioranza etnica serba. Una precedente scadenza del 2021 aveva scatenato attacchi piromani nei confronti di due uffici che avrebbero dovuto rilasciare le nuove targhe kosovare. Alla scadenza del 2022, il governo kosovaro guidato da Albin Kurti, notoriamente tra i più duri nelle relazioni coi serbi, annunciò che non ci sarebbe stata alcuna estensione e che in aggiunta i cittadini serbi avrebbero necessitato di una speciale documentazione per entrare e uscire dal Kosovo. A tali annunci, alcuni kosovari di etnia serba hanno reagito formando barricate; ciò ha indotto il dispiegamento della KFOR (la forza militare speciale guidata dalla NATO ancora presente nel Paese) nelle strade e il blocco di due varchi di confine da parte della polizia kosovara.
A seguito della mediazione di Stati Uniti e Unione europea, entrambe le parti hanno rinunciato a regolamentare gli accessi di cittadini kosovari in Serbia e viceversa tramite documentazione specifica, una misura criticata dalle opposizioni di entrambi i Paesi. Kurti ha quindi annunciato che ci sarebbe stato un periodo di transizione per la sostituzione delle targhe, da novembre 2022 ad aprile 2023; in risposta, molti kosovari di etnia serba si sono dimessi da cariche elettive, inclusi seggi parlamentari, e da ruoli di polizia; barricate e interventi da parte della polizia si sono susseguiti. Nonostante gli appelli internazionali a normalizzare la situazione, la tensione è salita; e in dicembre, successivamente all’annuncio da parte del governo kosovaro sull’imminente richiesta di diventare un candidato Stato membro dell’UE (effettivamente depositata qualche giorno dopo) la Serbia ha dichiarato di star considerando di avvalersi di una clausola della risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (quella che autorizzava la presenza delle forze internazionali in Kosovo), che concederebbe alla Serbia di poter schierare un contingente di 1000 propri soldati in Kosovo, una eventualità per l’appunto prevista su carta ma che veniva considerata come inverosimile dagli osservatori internazionali.
Durante tutto lo sviluppo di questa crisi, il governo kosovaro ha a più riprese accusato la Russia di aver aiutato la Serbia in una campagna di disinformazione atta a destabilizzare la popolazione kosovara di etnia serba. Tali accuse sono state ovviamente smentite dal governo russo ma è innegabile che i rapporti tra Russia e Serbia siano più che amichevoli e che un eventuale conflitto militare tra Serbia e Kosovo potrebbe giovare al Cremlino, distogliendo l’attenzione di UE e USA dalla situazione ucraina.
In ogni caso, le tensioni tra Serbia e Kosovo, e in generale tutte quelle più o meno sopite nell’area balcanica, non sono nate nel 2022 ma si trascinano almeno dalla fine della guerra e sono quindi ultraventennali; e l’Unione europea, in tutto questo tempo, si è dimostrata una possibilità concreta solo per Slovenia e Croazia.
La Macedonia del Nord, che ha persino cambiato nome per risolvere una contesa con la Grecia ed evitare quindi veti, è un candidato Stato membro dal 2005, quasi da diciotto anni quindi; il Montenegro lo è dal 2010, la Serbia dal 2012 e l’Albania dal 2014 - e per nessuno di loro l’ingresso nell’UE appare imminente. La Bosnia ed Erzegovina è diventata un candidato nel dicembre del 2022 ma con questi ritmi dovrebbe entrare nell’UE tra oltre venti anni.
È vero che per accedere all’UE vengono giustamente richiesti degli standard democratici che questi Paesi dovrebbero implementare con delle riforme che, per diversi motivi storici, sociali e politici, non sono attuabili velocemente; ma è anche vero che non fornire una prospettiva realistica di adesione conduce alla disaffezione verso il progetto europeo e quindi all’apertura ad altre aree di influenza (Russia, Cina, Turchia, Paesi arabi in primis). Tutti i sondaggi mostrano un consenso popolare in calo riguardo le prospettive di adesione, soprattutto in Serbia, dove ormai la maggioranza sarebbe contraria all’ingresso nell’UE.
Da segnalare infine il progetto “Open Balkan”, detto anche “Mini-Schengen”, ossia un’area economica e politica promossa da Albania, Macedonia del Nord e Serbia nel 2020, visto da alcuni come un tentativo di costruirsi una unione ad hoc - ma senza particolari requisiti di standard democratici da rispettare - dato che dall’UE non sarebbero giunte nuove in tempi brevi. Montenegro e Bosnia ed Erzegovina, seppur invitate a farne parte, hanno declinato appunto per evitare conflitti col processo di adesione all’UE; il Kosovo, anch’esso invitato, ha espresso invece dubbi per la presenza della Serbia.
Questa situazione potrebbe - e dovrebbe - stimolare un cambio di passo per l’UE: la Commissione guidata da Juncker, nel 2014, propose una moratoria sull’allargamento, che infatti non vide novità sostanziali fino all’insediamento della nuova Commissione nel 2019. Questo periodo di rallentamento del processo di allargamento, però, non ha prodotto significativi progressi riguardo l’approfondimento dell’unione politica; anzi, la crisi migratoria del 2015 ha esacerbato le differenze di vedute tra gli Stati membri, minandone la cooperazione.
Le due priorità - allargamento e unione politica - dovrebbero quindi essere affrontate insieme: rinunciare alla prima potrebbe significare aumentare la possibilità di conflitti e di infiltrazioni ostili nel cuore dell’Europa; rinunciare alla seconda condannerebbe ancor di più l’Unione all’irrilevanza internazionale, diventando oggetto e non soggetto dei cambiamenti mondiali. I Paesi candidati all’ingresso nell’UE lo hanno fatto liberamente, credendo nella prospettiva di una Europa unita e forte. Gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato che l’attuale assetto istituzionale non rende l’UE né forte, né unita; è quindi ora di cambiare, e l’unica via è quella federale.