Secondo Arthur Schopenhauer “tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza”. Dunque, ragionando con questa prospettiva si può interpretare una nostra determinata campagna come persa o vinta e di conseguenza interpretare il nostro ruolo nella storia.
Andiamo con ordine. Gli scorsi mesi hanno visto noi federalisti dichiararci insoddisfatti per i tentativi di Consiglio dell’Unione e Consiglio europeo di far cadere nel dimenticatoio le esplicite richieste da parte di Parlamento europeo e Commissione europea per la convocazione di una Convenzione – che dovrebbe portare auspicabilmente ad una riforma dei Trattati –. Nonostante le grandi aspettative che – legittimamente – ci eravamo posti, al momento la situazione sembra non mostrare passi in avanti. Ed è proprio qui che entra in gioco la nostra interpretazione sull’andamento delle nostre campagne. Distinguiamo, infatti, ciò che potremmo chiamare ‘quasi vincita’ – riferendoci al concetto utilizzato nell’analisi del gioco d’azzardo – da ciò che potremmo chiamare ‘fallimento’, in quanto si tratta di due strade diverse per interpretare la nostra realtà. Una quasi vincita spinge le persone che si imbattono in essa a continuare a ragionare in termini ottimistici, dunque a continuare a giocare con la convinzione di essere vicine alla vincita vera e propria. Possiamo intrecciare questa interpretazione con quelle che Dominic D.P. Johnson chiama ‘illusioni positive’, causate dall’assenza di una reale percezione dei mezzi che si hanno a disposizione. Quest’ultima definizione viene solitamente utilizzata per studiare i comportamenti di un leader carismatico in situazioni (soprattutto conflitti) le cui conseguenze sono state da lui – e dai suoi consiglieri – sottostimate. Dunque in questo momento calzerebbe a pennello con la figura di Putin. La prima conseguenza di queste illusioni è quella di battersi con ancora più forza e convinzione, nonostante il risultato sarà verosimilmente lo sbattere sempre contro lo stesso muro. Proprio per questo potrebbe calzare anche a noi federalisti, dal momento che se i risultati della CoFoE dovessero essere ignorati dai governi, sbatteremmo nuovamente contro lo stesso muro sul quale finì in un nulla di fatto il Progetto Spinelli. E questo significherebbe che in tutti questi anni non abbiamo interpretato il mancato raggiungimento del risultato federale con una prospettiva di fallimento, bensì come una quasi vincita. E ciò spiegherebbe la nostra ostinazione nel cercare soluzioni analoghe a quelle che ci hanno già condotto ad una sconfitta.

Se prendessimo invece questi fatti come dei veri e propri fallimenti, riusciremmo a comprendere meglio quale nuova strada dovremmo prendere? Prima di tutto ci si potrebbe chiedere se l’approccio da noi utilizzato sino ad ora possa essere definito pragmatico o ideologico. Se si definisse l’azione che si è tenuta sino ad oggi pragmatica – dunque atta al raggiungimento di una Federazione europea a priori, senza la creazione di un sentore comune – allora si arriverebbe a dire che è l’assenza di un nucleo ideologico – ossia quello che viene definito il vero motore di qualsiasi azione manifestatasi nella storia (che fa scendere in campo le persone) –, o l’assenza di un’espansione di esso a livello diffuso, la causa principale del mancato attecchimento degli ideali federalisti nel potere diffuso – o opinione pubblica –. Tuttavia si può notare come dopo la pandemia da Covid (complici soprattutto gli strumenti comuni senza precedenti adottati in risposta di quella crisi e la situazione vissuta dal Regno Unito post Brexit) le voci di dissenso nei confronti dell’Unione si siano affievolite molto e ora il classico motto «fuori dalla gabbia europea» fa molta meno presa. Si potrebbe dire che «l’emergenza ha fatto gli europei», ma si deve anche dire che questi europei sono una ‘maggioranza silenziosa’, non in grado di influenzare l’operato dei governi nazionali nella scelta definitiva per arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Eppure si dovrebbe essere più vicini di quanto possa pensarsi al risultato finale. Lo dimostra l’ultimo Eurobarometro (del gennaio-febbraio 2023), il quale riporta che il 77 per cento delle persone intervistate è a favore di una politica di difesa e sicurezza comune tra gli Stati membri dell’UE, o che l’80 per cento reputa fondamentale l’acquisto congiunto di attrezzature militari da parte degli Stati membri. Il germoglio risulta esserci, ma ancora oggi sbattiamo nel muro di cui si parlava più sopra.

Dove sta l’inghippo? Proprio in una ‘maggioranza silenziosa’ che non riesce a contrastare le grosse problematiche di decisionalità all’interno di Consiglio dell’Unione e Consiglio europeo. Questo silenzio fornisce un’idea sbagliata riguardo la reale volontà del popolo europeo, desideroso di vedere riconosciute le sue prerogative, in particolar modo per quanto riguarda il proprio ruolo di primo piano mirante all’indizione di una Costituente.

Albertini ricordava come il potere diffuso non fosse «una forza di iniziativa», ma che avesse invece bisogno di un Movimento organizzato come guida. Qual è il ruolo del nostro Movimento organizzato? Un Movimento di attesa o di azione? È opinione diffusa tra i federalisti che la Federazione europea avrà luogo in un momento di crisi e di minaccia esterna. Si può accostare questa speranza al concetto di ‘leadership occasionale’, utilizzato da Francesco Rossolillo per osservare il comportamento di chi detiene il potere esecutivo. Chi lo detiene, infatti, ha l’onere di risolvere problemi immediati e concreti. Egli sostenne che il nulla di fatto del Progetto Spinelli al Consiglio europeo non fosse frutto di una posizione «strutturalmente contraria» da parte dei governi. Sarebbe piuttosto utopico pensare che essi possano arrivarci contemporaneamente, all’unanimità e in una situazione storica non eccezionale. È più probabile, invece, che in particolari circostanze si presenti un governante (leader occasionale) disposto a compiere per primo il passo avanti – ufficiale e simbolico – tale da porre gli altri leader verso una svolta storica.

Si potrebbe dunque pensare che siamo obbligati a seguire questa strada. Tuttavia urge porsi delle domande. Quando sarà considerata minacciata davvero l’Europa? Qual è il livello di rischio per la nostra esistenza tale da portare un gruppo di leader occasionali (e coraggiosi) a promuovere un cambio di rotta esplicitamente, senza passi falsi o senza addirittura ripensamenti, dunque da rendere inevitabile la via della Federazione – anche se ristretta e non comprendente tutti i 27 – ? L’ultimo caso di ripensamenti riguarda Germania e Francia – i quali governi si dichiarano esplicitamente federalisti a livello di intenti – e la loro recente richiesta di allentare le regole sugli aiuti di Stato (nonostante l'opposizione della maggioranza dei governi europei), che avvantaggerebbe i Paesi membri con molto spazio di bilancio svantaggiando quelli che invece ne hanno poco, rendendoli impossibilitati a seguire determinati ritmi senza sussidi e concessioni fiscali nei settori relativi al ‘Green Tech’. Da un lato questi due governi sono stati individuati dai federalisti come motore della possibile riforma dell’UE, ma dall’altro lato non possiamo esimerci dal constatare che essi siano venuti meno alle promesse sopra le quali hanno basato l’inizio delle loro esperienze di potere.

Riprendendo sempre Albertini, egli diceva come l’europeismo organizzato (i militanti) e organizzabile (i simpatizzanti) si dovessero mobilitare per esporre «i dati reali della situazione e delle alternative di potere», in modo da far prendere coscienza all’europeismo diffuso (opinione pubblica) dell’esistenza della crisi degli Stati nazionali e che l’unico modo per combatterla fosse battersi per gli Stati Uniti d’Europa. La consapevolezza di questa crisi è presente nella maggioranza silenziosa ‘censita’ dall’Eurobarometro. Allora probabilmente il problema resta il come rendere rumorosa questa maggioranza.

Jean Monnet è degnamente ricordato da noi federalisti per il ruolo che ebbe nell’integrazione europea. Rimanendo sul problema di come rendere rumorosa questa maggioranza e sul rapporto federalisti-governi, forse, però, è meno ricordata una sua frase contenuta in una lettera a Spinelli del 1952 (dunque ancora prima del fallimento della CED), la quale potrebbe tornare utile quando si comincerà a percepire il nostro percorso sin qui fatto come un fallimento e non più come una quasi vincita: «è una rivoluzione quella che vogliamo, e la dobbiamo fare con mezzi legali, con uomini di Stato privi di energia, senza alcun appello sentimentale. Mi chiedo talvolta se non sbagliamo, se non occorre la forza, se non occorrono i martiri».

 

  

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