Sul finire del 2022, Benjamin Netanyahu ha ottenuto la maggioranza alla Knesset per formare il suo sesto governo di coalizione che non è irragionevole definire di estrema destra dato che si regge su una maggioranza che, accanto al suo partito Likud, include il partito ultranazionalista religioso dominato dai coloni della Cisgiordania e altri due partiti religiosi ultraortodossi. A pochi mesi dall’insediamento, il governo di Netanyahu si trova di fronte a due problemi gravissimi, l’uno di carattere strutturale, cioè l’aggravarsi della crisi con i palestinesi a seguito delle manifestazioni alla moschea di Al Aqsa (provocate – è bene sottolinearlo – dalle iniziative della polizia israeliana) e all’incremento degli scontri e degli atti di terrorismo, il che sembra minacciare una nuova intifada, l’altro – di cui lo stesso Netanyahu e la sua maggioranza sono i principali artefici – di natura interna e legato alla riforma costituzionale che Netanyahu intende far passare in parlamento che prevede – in buona sostanza – l’asservimento del potere giudiziario al potere dell’esecutivo. La norma cruciale della proposta del governo prevede infatti che una maggioranza semplice di parlamentari possa rigettare le decisioni della Corte suprema; quest’ultima, infatti, è l’unica istituzione capace di rivedere le leggi approvate a maggioranza parlamentare (in Israele non c’è una costituzione scritta, ma questa è la prassi istaurata fin dalla fondazione dello stato israeliano e si ispira alla tradizionale dottrina democratica della divisione dei poteri). La questione assume un aspetto ancora più rilevante se si considera che l’iniziativa del governo di estrema destra tende a favorire personalmente il premier Netanyahu oggetto di un processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Il piano di revisione giudiziaria – sottoponendo il potere giudiziario al potere politico – favorirebbe il premier, cui basterebbe un voto parlamentare contrario alle decisioni del potere giudiziario per evitare di finire sotto processo (e probabilmente in carcere).

Ma l’opinione pubblica ha protestato vivamente contro l’iniziativa del governo, favorita anche dalla posizione di mediazione (ma sostanzialmente contraria al governo) del presidente della repubblica Herzog. Secondo le informazioni riportate dal paper dell’ISPI (“Netanyahu ostaggio della riforma della giustizia” ISPI del 3 aprile 2023, a cura di Anna M. Bagaini), “la scelta è sola una: o il disastro o una soluzione” (s’intende “soluzione di compromesso” che prevederebbe il ritiro o l’annacquamento del progetto di legge), sarebbero le parole pronunciate dal capo dello stato di Israele. Sempre commentando le manifestazioni che continuano ad infiammare Israele, il paper dell’ISPI riferisce così: “Ricompaiono, ovunque e in gran numero, le bandiere israeliane nelle proteste, nei blocchi stradali e nei flash mob del giovedì, nelle grandi manifestazioni che di sabato riempiono le arterie stradali di Tel Aviv, assieme a Haifa, a Gerusalemme, alle cittadine che finora non avevano visto assembramenti. Si approfondisce, al contempo, la frattura tra settori diversi della società israeliana, soprattutto la frattura tra i laici e gli ortodossi legati al sionismo religioso, la vera ossatura che sostiene il governo attraverso le sue ali più estreme che i manifestanti non esistano a definire ‘fasciste.’” Le proteste hanno coinvolto anche l’esercito; secondo le informazioni del Paper ISPI, più di seimila soldati di riserva hanno firmato nelle scorse settimane una petizione dichiarando che non si sarebbero presentati in servizio in segno di protesta, inclusi i piloti riservisti del 69mo squadrone aereo.

Nel tentativo di contenere le manifestazioni di protesta, il 27 marzo, il premier Netanyahu ha annunciato una momentanea pausa nel processo legislativo fino all’inizio della sessione estiva della Knesset (maggio); ma il processo legislativo può essere ripreso quanto prima e la legge – nonostante le contestazioni – può essere approvata sulla spinta anche dei partiti ultraortodossi e del riportato interesse personale di Netanyahu. 

L’altra situazione di crisi è – come già ricordato - quella dei rapporti con i palestinesi, appunto di carattere più strutturale ma che si è ulteriormente incancrenita dopo le scelte politiche dei governi, l’ultimo in particolare, per quanto riguarda gli insediamenti nei territori occupati. Ancora dal citato paper dell’ISPI: “D’altro canto, i palestinesi con cittadinanza israeliana hanno sperimentato soprattutto dal maggio del 2021 rinnovati pericoli verso la stessa sicurezza della comunità che ora rappresenta il 20% della popolazione di Israele. Gli attacchi dei settori della destra estrema (che fa parte del governo) nelle città israeliane dov’è concentrata la popolazione palestinese sono ancora vivi nella memoria. E ancora vive sono le scene del pogrom a Huwwara a opera dei coloni radicali che vivono attorno a Nablus”. La situazione è quindi peggiorata rispetto a quanto si scriveva e si proponeva alla fine del secolo scorso (dopo gli accordi di Oslo ed il riconoscimento dell’Autorità palestinese, ma non dello Stato palestinese) e a metà degli anni 2000 quando, in particolare nel 2006, scrivevo (in un breve saggio su Il Federalista, XLVIII, 2006, numero 1, dal titolo “Le crisi del Medio Oriente e le responsabilità dell’Europa”): “Al tempo stesso non va dimenticata la necessità di dar vita ad uno stato palestinese indipendente che disponga di confini certi come ormai accettato da gran parte del mondo occidentale. Già nell’estate del 1980, poco dopo il fallimento degli accordi di Camp David, il Movimento Federalista Europeo ha presentato al Parlamento europeo una petizione ove si ravvisava ‘nella creazione di uno stato palestinese il fatto decisivo per consentire alle forze del progresso e della pace nel Medio Oriente di prendere il sopravento su quelle della conservazione’”. Ma in questi diciassette anni molte cose sono cambiate e la simpatia di cui godevano i palestinesi si è andata affievolendo, anche a causa delle divisioni interne del loro movimento (Autorità Nazionale a Ramallah contro Hamas nella striscia di Gaza). Ma soprattutto ciò che si è modificato è l’equilibrio mondiale (soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina) ed in particolare l’atteggiamento delle presidenze degli Stati Uniti che sembrano sempre di più discostarsi – nonostante le preoccupazioni della CIA e del Pentagono – dal coinvolgimento nel Medio Oriente (e nell’Africa), secondo le regole del “Pacific oriented”, pur mantenendo un supporto non sostanzialmente modificato nei confronti dello stato di Israele. Ciò ha oggettivamente rafforzato anche la posizione di Netanyahu, nonostante le difficoltà interne ed il suo indubbio calo di popolarità. A fronte di un progressivo coinvolgimento di Cina – ed ora anche di Russia – nel Medio Oriente ed in Africa (si veda anche l’iniziativa cinese di ottenere una forma di pacificazione tra Iran ed Arabia Saudita), Israele continua a rappresentare per gli Stati Uniti una garanzia di contenimento e di sostegno delle posizioni cosiddette “occidentali” e peccato se il prezzo da pagare sia l’accettazione (salvo qualche buffetto) delle politiche di disprezzo per le regole della democrazia e della tradizionale divisione dei poteri, di cui sono responsabili il governo Netanyahu e la maggioranza ultraortodossa che lo sostiene.

E l’Europa? Neppure protesta se non sottovoce; tace e acconsente, anch’essa sempre più distante – nonostante i problemi che l’angustiano (citiamo i migranti per dirne una) derivanti dalle questioni cruciali del Medio Oriente e dell’Africa (guerre, disordini, dittature, etc.), lasciando campo libero a Cina e Russia e continuando a sperare in un assai improbabile ripensamento “Atlantic oriented” degli Stati Uniti che dovrebbero continuare a fare il lavoro sporco che l’Europa disdegna. Ma perché stupirsi? L’Europa – l’Unione europea – non è uno Stato, ancorché federale, non ha potere né responsabilità nei settori della politica estera e della difesa e neppure ha una politica unitaria in termini di aiuto ai paesi sottosviluppati, lasciando di fatto questo ruolo alla Cina. Né i singoli paesi europei sono in grado di svolgere questo tipo di politica al di là delle magniloquenti espressioni di voler intervenire – come fa il governo Meloni – con un inimmaginabile piano di aiuti, cui fanno difetto – oltre alla visione politica – soprattutto le risorse (il famoso “Piano Mattei”).

Ma concludendo queste amare considerazioni, torniamo per un momento alla questione interna di Israele per accennare ad un ulteriore rischio di aggravamento della situazione. E’ noto che un governo che gode di scarsa popolarità – come è ora il caso del governo Netanyahu – tende a cercare un nemico esterno sul quale accentrare l’attenzione dell’opinione pubblica per distrarla dalle questioni interne (come è pur sempre la questione della riforma istituzionale). Giustamente ne parla in chiusura il citato paper dell’ISPI: “Le incognite, a questo punto, sono molte. Quasi tutte di ordine interno, e cioè di cosa potrebbe succedere dentro Israele. La protesta di piazza continuerà, si allargherà? E se sì, quanto inciderà su un possibile compromesso politico guidato dal presidente Herzog? Oppure la situazione è ormai andata oltre, e la frattura tra le diverse componenti della società, dell’economia, del sistema istituzionale, della sicurezza in Israele ha già provocato separazioni insanabili? C’è però un’incognita che mette in gioco lo scenario regionale. Molti osservatori, in Israele, nella regione, sino a Washington, lanciano segnali di allarme per un possibile attacco israeliano all’Iran. Le notizie che si sono diffuse sull’arricchimento dell’uranio in Iran arrivato a soglie pericolose, a livelli che rendono possibile il nucleare militare, preoccupano ancora di più in questo momento in cui Netanyahu è paradossalmente debole”.

Debole appunto sul piano interno ed in cerca di un capro espiatorio su cui riversare il malcontento della piazza. Che cosa meglio che il punire il paria iraniano?

Ed ancora una volta l’Europa starà a guardare.

 

 

  

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