Risulta molto complicato parlare del fenomeno Milei, con caratteristiche molto locali, per il pubblico europeo. Si parte sempre da una inevitabile confusione. Visto dall’Europa, Milei è la controparte argentina di Bolsonaro, Trump, Orban e via dicendo. False friends, si dice in linguistica. Questo modo di vedere le cose, basato sulla distinzione destra-sinistra che appartiene a società civili e democraticamente consolidate, non tiene conto della realtà latino-americana né, ancor meno, di quella argentina, da sempre molto particolare. Usare lo schema destra-sinistra per capire il fenomeno Milei è come cercare di orientarsi nell’Amazzonia muniti da una mappa della metropolitana di Manhattan.
Cercherò di dirlo brevemente e brutalmente, sperando di non offendere nessuno: l’Argentina non è New York, ma la Sicilia. E la Sicilia prima di Falcone. La distinzione centrale, perciò, non è fra destra e sinistra, ma fra chi è con la mafia e chi è contro la mafia. La mafia, certamente, è il peronismo, che è sbarcato nel 1945 in un paese che era il nono più ricco al mondo e aveva la legislazione sociale e l’educazione pubblica più avanzata dell’America latina e di buona parte dell’Europa, e che in ottanta anni ha distrutto il paese con l’aiuto inestimabile del suo alleato-nemico complementare, nato anche dalle forze armate: il Partito Militare. Nel 1945, italiani, spagnoli ed europei in generale migravano verso l’Argentina prima di Perón. Oggi, i suoi nipoti fuggono verso i paesi abbandonati dai suoi antenati, alla ricerca di un posto dove vivere da persone normali.
In questa prospettiva va compreso il fenomeno Milei, che nel modo di parlare può assomigliare a Trump e a Bolsonaro, ma che non ha nessun potere per portare avanti un programma reazionario.
Non si capisce Milei senza capire questo, né senza vedere che in questi ultimi venti anni di peronismo kirchnerista tuti i paesi dell’America latina - tranne noi - hanno fatto grandi passi in avanti. Con governi di destra e governi di sinistra, ma senza mafie corporative al comando. Maggiore produzione, meno povertà, progressi netti nella salute e nell’istruzione pubblica, inflazione a una cifra. Qui, malgrado il contesto internazionale molto favorevole, siamo di gran lunga arretrati. Così, parlare di centrosinistra per riferirsi all’ultimo ciclo peronista è uno scherzo. L’economia è distrutta. Non c’è la benzina in un paese che ha la seconda riserva di gas e petrolio non convenzionale al mondo. La banca centrale è in rosso; il debito pubblico è il più alto di sempre con questo governo. E, soprattutto, c’è stato il 211% di inflazione nel 2023 e cinque milioni in più di poveri in solo quattro anni. Il tutto, mentre si canta l’inno a Perón, grande ammiratore del Duce e leader dei lavoratori... Ma quale centrosinistra?
Dal malessere che ne risulta, nasce Milei. In questa prospettiva va compreso il fenomeno Milei, che nel modo di parlare può assomigliare a Trump e a Bolsonaro, ma che dal punto di vista operativo non ha nessun potere per portare avanti un programma reazionario. Trump ha con sé il Partito Repubblicano. Bolsonaro ha gli evangelisti, la consolidata destra brasiliana e l’esercito. Milei quasi non ha un partito. Milei non ha niente, se non il voto del 56% degli argentini. Il suo è il governo con il potere parlamentare più basso della storia argentina e dipende fortemente da alleati la cui tradizione democratica e repubblicana è fuori discussione, per affrontare la crisi economica più grande della nostra storia, piena di episodi drammatici. Una crisi iperinflazionistica è oggi molto probabile, con conseguenze sociali potenzialmente micidiali. Dunque, il problema del governo Milei non è che abbia troppo potere per cambiare in peggio, ma scarso potere per cambiare un modello economico nazionalista e corporativo, che va cambiato se non si vuole che il paese esploda.
Lo stesso vale per le relazioni internazionali. Certo, in campagna Milei ha fatto dichiarazioni contro la ONU e l’Agenda 2030, ha promesso di uscire dal Mercosur e ha stilato un programma in stile Bolsonaro. Ma nella pratica, sotto la guida della ministra degli esteri Diana Mondino, da quando è al governo tutto procede in modo ragionevole. Anzi, molto meglio che col governo precedente, che faceva grandi discorsi ma ha finito per essere un alleato di Putin (“la porta aperta per la Russia in America Latina”, ha promesso Fernandez a Putin due settimane prima dell´invasione), tanto da lasciare il paese alla Cina con prestiti e concessioni per opere pubbliche, per danneggiare ulteriormente il Mercosur e metterlo a rischio della rottura, per bloccare l’accordo Unione Europea-Mercosur e per essere il supporto attivo nella regione del regime iraniano e delle peggiori dittature latino-americane: quella venezuelana e quella cubana.
Il programma internazionale di Milei, invece, è perfettamente in linea con una visione progressista e federalista. Innanzitutto: pieno impulso all’accordo Unione Europea-Mercosur, la cui approvazione, preparata dal governo Macri, sarebbe una enorme nota positiva di alleanze fra due forme di integrazione regionale e configurerebbe il maggiore mercato economico comune al mondo. Mondino ha anche ripreso le trattative per incorporare l’Argentina all’OCSE, iniziate dal governo Macri e interrotte dal peronista Fernandez per motivi evidenti: la trasparenza delle pratiche amministrative che l’Argentina dovrebbe rispettare nei confronti dell’OCSE è contro l’interesse centrale della mafia peronista: appropriarsi di fondi statali come è stato fatto durante questo ventennio, il più corrotto della nostra storia.
Da spinelliano quale sono, amo più i fatti che i discorsi.
Inoltre, l’Argentina di Milei sta riprendendo pure i contatti con tutti i paesi e tutti i blocchi continentali del mondo, inclusi il NAFTA e il Partnenariato Trans-Pacifico (TPP11). L’obiettivo di un Paese che si mette dalla parte del diritto internazionale e a favore di un’economia aperta al mondo (come era quella argentina prima del peronismo) fa parte del programma del governo Milei. E, visto il risultato del protezionismo di questi anni, che ha fatto in modo che l’Argentina sia (insieme al Venezuela) l’unico paese latino-americano che ha sofferto arretramenti, non posso essere più d’accordo.
Da spinelliano quale sono, amo più i fatti che i discorsi. Per questo ritengo che, senza escludere i problemi derivanti da una personalità quanto meno complessa come quella di Milei né i possibili accidenti di percorso, la situazione internazionale dell’Argentina non possa che migliorare. Non c’è bisogno di magia ma di senso comune: il peronismo ha messo l’asticella così in basso che è difficile fare di peggio. Garanzie? Nessuna. Come ha detto un mio amico cosmopolita italiano quando gli ho confidato queste mie idee, piene di ottimismo e di speranza: chi vivrà vedrà. Infatti, la storia rimane aperta, ma il passato e i suoi fatti non si possono cambiare. Se ho capito bene, è dai fatti - e non da desideri e schemi ideologici che non hanno a che fare con la realtà - che bisogna partire. Proviamoci.
Fernando Iglesias
(Co-presidente del WFM
Membro della Camera dei deputati dell’Argentina con Juntos por el Cambio, coalizione guidata da Mauricio Macri
Presidente della Commissione Affari esteri della Camera)