L’UE non può limitarsi a difendere l’esistente. O si prosegue il tentativo di riforma avviato nella legislatura uscente o ci si culla nelle vuote illusioni nazionali.
A settembre 2014, presentando la nuova Commissione europea, Jean-Claude Juncker disse che quella era la Commissione dell’“ultima spiaggia”. Nel racconto dei mass media erano i tempi dei PIIGS e del Fiscal compact, del “ce lo chiede l’Europa” e dell’austerity (mentre i federalisti ricordavano il monito di Tommaso Padoa-Schioppa “agli Stati il rigore, all’Europa lo sviluppo”).
A dieci anni da quelle parole di Juncker, la domanda che viene da porsi è: a che spiaggia siamo adesso? La proposta di allora per uscire dalle sabbie mobili fu quella di un Piano di investimenti, dalle ambizioni magniloquenti (€ 315 mld di investimenti) ma povero di risorse (un fondo di garanzia da € 26 mld, integrato da € 7,5 mld di fondi propri della BEI). Ultima spiaggia a parole, ma una zattera malandata per cercare nuovi lidi.
Con questi strumenti, la Commissione Juncker trascorse cinque anni sulla difensiva. La difesa resse il colpo di Brexit mostrando, ai nazionalisti degli altri Paesi che volevano uscire dall’UE, il caos ingestibile che li avrebbe attesi. Aiutò anche a tenere a bada i regionalismi, facendo presente agli indipendentisti catalani che un nuovo Stato avrebbe dovuto completare tutto il percorso per chiedere l’ingresso nell’UE.
“Il problema è racchiuso sempre lì: nella gelosia del proprio simulacro di potere serbata dai governi nazionali.”
Difendersi però non è sufficiente. Essendo l’UE una costruzione politica in fieri, piena di contraddizioni (l’unione monetaria senza l’unione fiscale, un Parlamento eletto direttamente senza un governo, alcune istituzioni federali ma il nulla o quasi nella politica estera e nella difesa), deve necessariamente compiere nuovi passi nel processo di integrazione, pena un logorio che fa gioco ai nazionalisti che vogliono distruggerla.
Negli ultimi cinque anni il tentativo di riprendere il percorso c’è stato. Il 4 marzo 2019, il neoeletto Presidente francese Macron ha inviato una lettera rivolta ai cittadini europei che proponeva di convocare una Conferenza per discutere del futuro dell’Europa, chiedendo se sia “meglio avere un’Europa che sta ferma o un’Europa che avanza - a volte con velocità diverse - e aperta a tutti”. Dopo notevoli resistenze, la Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFoE) ha avuto inizio il 9 maggio 2021 e, nell’anno seguente, grazie al lavoro cruciale dei federalisti, ha elaborato proposte talmente avanzate che il Parlamento europeo il 9 giugno 2022 ha approvato a larga maggioranza una risoluzione per convocare una Convenzione che discuta le proposte di riforma dei trattati emerse nella CoFoE. I capi di Stato e di governo non ne hanno voluto sapere dopo quella prima risoluzione e non ne vogliono sapere nemmeno in questi mesi, dopo che il Parlamento europeo il 22 novembre scorso ha approvato un progetto di riforma dei trattati.
D’altronde, il problema è racchiuso sempre lì: nella gelosia del proprio simulacro di potere serbata dai governi nazionali. Se infatti da un lato i sovranisti – dopo la loro sostanziale sconfitta alle europee del 2019 – hanno imparato, da Brexit ma anche da Orban, che non si può fare a meno dell’UE, dall’altro gli europeisti non riescono a compiere il salto per liberarsi delle dinamiche di potere nazionale.
“Finché non ci sarà un vero potere europeo, la linea di divisione sarà quella di Ventotene.”
Peraltro, con questo riassestamento dei sovranisti, si fa un gran parlare di possibili maggioranze alternative alla coalizione fra popolari, socialisti e liberali: la trasposizione europea del governo Meloni (PPE-ECR-ID) o una versione rimaneggiata più al centro (ECR-PPE-Renew). Si potrebbe notare che nessuna di queste alternative nei sondaggi ha i voti per formare una maggioranza in Parlamento (a entrambe mancano almeno 20 voti). Ma il punto fondamentale è che, finché non ci sarà un vero potere europeo (cioè un governo federale, in grado di raccogliere per conto proprio risorse e in grado di fare una propria politica estera), la linea di divisione sarà quella di Ventotene: chi vuole una maggiore integrazione europea contro i nazionalisti.
È da vedere sotto questa luce che Renew afferma di rifiutare di collaborare con ECR, così come quasi tutto il PPE non intende formare una maggioranza con ID e in larga parte nemmeno con ECR, pronto ad accogliere Fidesz espulso dal PPE e il partito di un nazionalista da primo Novecento come Zemmour. Non è dunque possibile pensare maggioranze alternative, ma è possibile che pezzi di ECR (o altri) votino per una maggioranza europeista.
Inoltre, è da vedere sotto questa luce il fatto che la candidata del PPE alla presidenza della Commissione e principale favorita, Ursula Von der Leyen, sta conducendo una campagna elettorale poco visibile. Ha bisogno infatti più del voto dei governi a porte chiuse nel Consiglio europeo che dei consensi dei cittadini europei nelle urne.
Le misure da difesa dell’esistente però oggi non bastano. Bisogna seguire l’esempio del Parlamento nella legislatura che si chiude, alzando il livello di ambizione. Se il processo iniziato con la CoFoE non proseguirà con la convocazione di una Convenzione, vorrà dire che i governi nazionali vorranno continuare a cullarsi in illusioni scollegate dalla realtà.
L’illusione, per esempio, che la difesa sarà per sempre garantita dagli USA. Quando non solo uno dei due candidati alla presidenza dice in pubblico di voler invitare Putin ad attaccare i Paesi che spendono nella difesa meno del 2% del PIL, ma tutto il Paese ha ormai il suo interesse principale nell’Indo-Pacifico. L’illusione, inoltre, che aumentare di qualche decimale la spesa a livello nazionale costituisca un deterrente sufficiente contro Putin.
L’illusione, poi, che investimenti nazionali in 27 Stati bastino a creare lavoro e innovazione (con il rinnovo del NextGenerationEU a rischio). Quando le imprese europee sono lontane dalla frontiera nelle più recenti e produttive tecnologie del digitale. E ridotte a competere con imprese USA e cinesi che non solo hanno spesso le migliori tecnologie ma sono anche largamente sussidiate dai rispettivi governi (con l’ulteriore aggravio, per la manifattura europea, di pagare l’energia molto di più dei concorrenti globali).
E molte altre comode illusioni delle vuote sovranità nazionali.
Dunque, quello che bisognerà guardare, al voto del 6-9 giugno, non sarà tanto se il giorno dopo un gruppo o l’altro si sarà assicurato dieci seggi in più o in meno (anche perché dalla nuova ripartizione dei seggi ci si attende non terremoti, al massimo scossoni). Ma se, nelle settimane e mesi a venire, i nuovi europarlamentari progressisti nel senso di Ventotene avranno un’ostinazione uguale o persino maggiore nel chiedere una riforma dei trattati, e soprattutto se i capi di Stato e di governo più europeisti faranno la loro parte nella convocazione della Convenzione.
È questa l’unica opportunità per l’Europa. L’alternativa è cullarsi nelle illusioni e rimanere all’ultima spiaggia.