La Repubblica Serenissima si spense quasi senza combattere, travolta dal peggiore dei mali che un’organizzazione umana possa vivere: la scelta dell’isolazionismo. Il ‘700 veneziano, che ci ha donato enormi e meravigliosi esempi artistici, è un secolo in cui la Dominante porta all’estremo le scelte dei secoli precedenti: neutralità politica, demilitarizzazione, trasformazione economica in mero sfruttamento dei territori agricoli del proprio entroterra.
Le parole del penultimo Doge, Paolo Renier, sono profetiche di questo. Nel 1780 ebbe a dire che “vivemo a sorte per accidente, e vivemo colla sola idea della prudenza della Repubblica veneziana. Questa xe la nostra forza…”

L’unica forza della Dominante, alla fine del secolo XVIII, era la prudenza. Noi europei dobbiamo evitare di terminare nello stesso modo. Anche perché il tempo ritmato della Storia oggi, coerentemente con i mezzi di trasporto, corre ben diversamente.

Così come la Serenissima si illuse di poter vivere “colla sola idea della prudenza”, oggi in Europa c’è chi si illude di poter vivere senza più produrre idee e senso all’oggi, chiudendoci al mondo che corre. Il principale argomento retorico di questa teoria è che viviamo in una profonda deglobalizzazione. Le motivazioni che vengono apportate sono almeno tre. E sono facilmente smentibili.

  1. Prima di tutto, c’è chi teorizza che viviamo una deglobalizzazione per via del mero fatto che vi è una riduzione delle esportazioni globali sul totale del PIL globale ormai da 15 anni, oltre al netto diminuire degli investimenti diretti esteri. Peccato che questa teoria si schianti quando si considera che, nel 2021, l'export di servizi a livello globale è stato pari a 6,1 trilioni di dollari, ossia il 6,3 per cento del PIL mondiale, quando nel 2006 era appena il 3%. Più che deglobalizzazione economica, stiamo assistendo alla servitizzazione dell’economia globale. Un fenomeno scontato, come conseguenza dell’evoluzione di molte economie che erano in via di sviluppo e che oggi sono alla pari o quasi alla pari con Europa, Stati Uniti e Giappone.
  1. In secondo luogo, c’è chi reputa che la globalizzazione è sulla via del tramonto per via del fatto che gli Stati Uniti d’America puntano a un modello “friend-shoring”, ossia preferiscono costruire catene di valore solo con Paesi con modelli democratici e liberali. E noi europei stiamo andando nella stessa direzione? La verità è che questi sono più che altro titoli. La globalizzazione non è, purtroppo, un fenomeno intimamente legato all’avanzata della democrazia liberale. Questo, forse, è l’errore che dobbiamo riconoscere, dopo la sbornia ottimista degli anni ‘90. Così come la democrazia e le libertà economiche sono scindibili, anche globalizzazione e democrazia liberale lo sono.
  1. Altri ancora teorizzano che ci sia una ridefinizione del mercato globale in filiere più brevi e locali. La verità che è che i dati commerciali al momento non mostrano una deglobalizzazione delle catene di produzione. A questo proposito Martina Di Sano, Vanessa Gunnella, Laura Lebastard in un articolo sul sito della BCE (“Deglobalisation: risk or reality?” [1]) chiariscono che “le politiche in molte parti del mondo ora danno priorità agli obiettivi nazionali o geopolitici rispetto all'efficienza. Industrie strategiche come i semiconduttori o i prodotti farmaceutici, ad esempio, potrebbero assistere a un rientro delle catene di approvvigionamento come risultato delle politiche governative.” Le analisi offerte dall’articolo “basate su dati aggregati passati e comportamenti commerciali, ad oggi dimostrano il contrario, poiché spostare la produzione è costoso e complesso.

Il mondo, in altre parole, non si sta deglobalizzando in nessun senso se vogliamo prendere la definizione di globalizzazione economica: in termini di produzione di catene di valore, in termini di relazioni commerciali tra Stati con diversi regimi politici, in termini di meri flussi economici. Ma anche, se volessimo analizzarli, anche in termini di quantità di spostamenti. Per esempio, il numero di viaggiatori in aereo nel mondo nel 2023 è tornato quasi ai livelli del 2019 e il numero di presenze turistiche nel mondo del 2023 ha raggiunto un nuovo record mondiale.

Il punto cruciale è quindi un altro. Non tanto la deglobalizzazione, che è un fenomeno per ora più immaginato che reale, bensì il livello di conflittualità attuale del mondo e il ruolo dell’Unione Europea come soggetto con piena autonomia strategica in settori fondamentali.

Come possiamo, con altre parole, come europei, rispondere al mondo conflittuale di oggi? La tesi protezionista sostiene di ridurre la dipendenza dalle autocrazie e di isolarsi. Questa scelta è frutto di una tripla debolezza. La prima debolezza è nella capacità dell’Europa di essere un soggetto globale, capace di influenzare le relazioni internazionali. Il nostro ruolo è pressoché irrilevante in tutte le questioni extraeuropee. È vero che esiste un “Effetto Bruxelles” a livello normativo ma nei fatti ci rimane solo quello e, in un’epoca di aumento di conflitti, è quello meno significativo. La seconda debolezza è ideologica, ed è la comprensione e convinzione del fatto che l’idea di poter esportare la democrazia con la globalizzazione economica è meramente fallita. I gloriosi 90 si sono infranti su Osama Bin Laden e sulla crisi del 2008. La terza debolezza è di spirito. La maggioranza degli europei si è davvero persuasa che la storia sia finita e sia auspicabile e possibile vivere come una grande Svizzera, senza le perturbazioni del mondo globale.

Il rischio però è quello di lasciare la globalizzazione economica nelle mani delle autocrazie. Jin Liqun [2], Presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank, tra tantissimi altri, lo dice ripetutamente: “la Cina sostiene la globalizzazione, che è un fenomeno ineluttabile”.

La ritirata ideologica dell’Europa sarebbe nefasta per i propri cittadini e per i tanti cittadini di tutti i Paesi del mondo che sono fieri sostenitori della democrazia, della libertà e di una regolamentazione assennata delle relazioni internazionali.

Per questo il pensiero federalista non può sposare l’idea di un’Europa isolata, beatamente dedicata a tutelare al proprio interno una senilità affascinante e decadente. Farlo sarebbe negare il nostro slogan più celebre, ossia che serve “unire l’Europa per unire il mondo”. Per questo batterci per un’Europa federale con una difesa comune, un bilancio più grande e istituzioni comuni più efficaci è un dovere morale nei confronti di ogni cittadino del globo. Dobbiamo offrire un modello e dobbiamo continuare a produrre futuro. O, con le parole di Draghi, “la coesione politica della nostra Unione richiede che agiamo insieme, possibilmente sempre. Dobbiamo essere coscienti che la coesione politica è minacciata dai cambiamenti del resto del mondo.”

I cambiamenti del resto del mondo producono un disordine globale che è là a dimostrare che la nostra battaglia federalista in Europa e nel mondo è ancora quella giusta ma, soprattutto, necessaria.


[1] https://www.ecb.europa.eu/press/blog/date/2023/html/ecb.blog230712~085871737a.en.html

[2] https://www.youtube.com/watch?v=Pgqv1uPqHP8

 

  

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