Intervista con la giornalista Anna Momigliano, esperta di Israele e di Medio Oriente.

C’è il dramma del conflitto. Le sue morti a sangue freddo, i suoi bombardamenti su civili inermi, l’assenza di cibo e di acqua. Ci sono poi le questioni politiche irrisolte, da cui scaturisce la guerra, che “non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, per riprendere una celebre citazione di von Clausewitz.

Per gettare un po’ di chiarezza, abbiamo contattato Anna Momigliano, giornalista che ha scritto fra gli altri per Haaretz e il New York Times e conosce molto bene Israele e la Palestina. Ne è nata una conversazione ampia, da cos’è Israele oggi per gli israeliani a quali scenari si possono delineare quando (non è dato sapere il giorno) le armi si abbasseranno.

Può Israele essere considerato una nazione, nei termini in cui intendiamo questo termine noi europei? Di conseguenza, possono Itamar Ben-Gvir e gli altri estremisti che sono nel governo Netanyahu essere considerati nazionalisti o come è più opportuno considerarli?

Israele nasce come un prodotto del sionismo, un'ideologia nata nella seconda metà dell'Ottocento in Europa e imparentata con i movimenti nazionali europei, fra cui il Risorgimento e Mazzini. Nei primi sionisti c’è quindi un’idea di Stato-nazione (un popolo, una terra, una lingua comune), con un’interpretazione spesso accostata al socialismo. Detto ciò, bisogna considerare che l’immigrazione ebraica verso Israele fu sì in parte volontaria, ma spesso anche forzata: i pogrom in Russia a fine Ottocento e pochi decenni dopo le persecuzioni naziste spinsero molti ebrei a trasferirsi in Israele.

Su queste basi, Israele nasce come Stato libero e democratico (“Stato ebraico e democratico”, secondo la dicitura di una delle Leggi fondamentali di Israele) e quindi legato a un popolo dove tutti i cittadini sulla carta sono uguali. Tuttavia, a partire dagli anni ’60 e con un’accelerazione negli ultimi tempi, si è affermata una corrente a metà strada fra l’etnonazionalismo e il messianesimo dove è forte la componente religiosa: una forma di nazionalismo oscurantista ma anche ipermoderno. A questa corrente si richiamano oggi Netanyahu e in maniera più accentuata Itamar Ben-Gvir. Per fare un paragone, l’India di Modi oggi sta vivendo un processo simile.

A proposito di modelli in giro per il mondo, un’altra domanda da porsi è: pur tenendo conto delle differenze che ci sono fra i vari gruppi politici e sociali, dove si vedono nel mondo oggi gli israeliani? Più vicini all’Europa, al Medio Oriente o magari agli USA?

Innanzitutto, bisogna dire che Israele ha una popolazione estremamente eterogenea, per origini, cultura e idee politiche. Ciò detto, un dato interessante è che, nonostante i rapporti con i Paesi arabi siano oggi deteriorati rispetto agli anni ’90, Israele è sempre più un Paese mediorientale. Sia nel senso che la democrazia liberale non è più una cosa che interessa così tanto a fette della popolazione sempre più grandi. Sia da un punto di vista culturale: per esempio su questo fronte la musica israeliana è oggi molto più mediorientale di quanto non lo fosse negli anni 2000. Il “quartiere” di Israele, insomma, anche se i rapporti con il vicinato sono burrascosi, è il Medio Oriente, non l’Europa o gli USA.

E c’è oggi o c’è mai stata in Israele una spinta politica per l’ingresso nell’UE?

No, né ora né in passato. È come se qualcuno ti dicesse che domani entri a far parte di una squadra di basket, quando tu non avevi mai chiesto di giocare in quella squadra. Ecco, Israele non ha mai chiesto di entrare nella squadra di basket dell’UE. Ho conosciuto tanti israeliani, di diversa estrazione sociale e di diverse idee politiche, ma non ho mai sentito nessuno esprimere il desiderio che Israele entri nell’UE. Men che meno esistono oggi o sono mai esistiti movimenti politici in Israele che abbiano portato avanti una battaglia di questo tipo. Piuttosto, se vogliamo, in riferimento all’Europa, una forte popolarità in Israele ha l’Eurovision, che era cool lì molto prima che in Italia.

Finora abbiamo parlato di Israele. Guardando ai palestinesi, qual è il consenso effettivo di Hamas oggi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, al di là degli aspetti militari? Un analista come Daoud Kuttab su Project Syndicate ha indicato in Mahrwan Barghouti di Fatah come un possibile nuovo catalizzatore della causa palestinese. È credibile secondo lei?

Barghouti è in prigione da ventidue anni. Sicuramente gode di enorme stima presso i palestinesi, ma il dato di fatto è che il governo israeliano non lo vuole liberare. Misurare il consenso poi oggi è molto difficile, perché l’ultima volta che ci sono state elezioni a Gaza (elezioni non esattamente tranquille) era il 2006, quando la maggior parte dei palestinesi in vita oggi non era ancora nata. In molti e fra questi Amira Hass, una giornalista di Haaretz, sostegno che c’è un certo malcontento verso Hamas. A ogni modo, è molto probabile che se si troverà una via di uscita si formerà un governo di unità nazionale che includa Fatah e Hamas, magari escludendo l’ala militare di Hamas che fa capo a Yahya Sinwar, malvista anche dalla testa politica che sta a Doha.

Diceva della difficoltà a misurare il consenso con una popolazione palestinese così giovane e anche l’età media israeliana è piuttosto giovane. Proviamo però a guardare alla guerra di questi mesi in prospettiva storica, per cercare di porla nel suo contesto. Allo stato di cose attuale, questo potrebbe essere il più rilevante conflitto della questione israelo-palestinese o per ora rimane uno fra gli altri scontri armati che ci sono stati in passato?

È molto difficile elaborare una prospettiva storica quando sei dentro agli eventi, perciò sono tutti discorsi che vanno presi con le pinze. Menziono intanto due dati. Il primo è che per Israele il 7 ottobre è stato uno shock gigantesco, più grande della guerra del Kippur, forse paragonabile solo alla guerra del ’48, quando gli arabi hanno invaso Israele e sembrava potessero vincere la guerra.

Il secondo dato è che a Gaza, invece, oggi ci sono solo macerie, non è nemmeno un luogo abitabile. Per i palestinesi il paragone più vicino è alla Nakba del ’48, la Catastrofe. Non so se di nuovo dovranno migrare altrove, ma di sicuro è un trauma che avrà conseguenze pratiche per decenni. 

Ciò non potrà che dipendere, oltre che dalle decisioni delle forze israeliane e palestinesi, anche dagli Stati dell’area. Rispetto a questo, si è spesso parlato negli ultimi mesi dell’isolamento internazionale di Israele. Tuttavia, l’attacco iraniano del 14 aprile è stato intercettato anche dalle forze giordane e Benny Gantz ha parlato di una “coalizione regionale”. Israele è quindi meno isolato di quanto sembri?

Il governo giordano ha aiutato Israele, ma poi l’ha negato. Questo rende l’idea di quanto sia stato imbarazzante per la Giordania aiutare Israele. Rende l’idea anche di quanto Israele oggi è sempre più isolato, anche se non solo. Non è uno Stato canaglia ma di certo è uno Stato imbarazzante, un vicino con cui non ti fai vedere volentieri che però non è ancora abbandonato a se stesso. Per fare dei paragoni, Israele oggi è al livello del Sudafrica dell’apartheid prima di Mandela o della Grecia dei colonnelli. Rimane, ciononostante, un alleato dei Paesi occidentali, assieme a USA, Europa, Giappone, Corea del Sud e altri fra cui i Paesi sunniti, che seppur freddamente rimangono in questo polo delle alleanze internazionali. Mentre nell’altro polo ci sono Cina, Russia, Iran, Corea del Nord.

Chiudiamo con una prospettiva futura. C’è secondo Lei la concreta possibilità che ci sia un riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese, terminata l’invasione di Gaza? Può il riconoscimento di uno Stato palestinese, accompagnato alla costruzione di istituzioni comuni fra Israele e Palestina in materia di sicurezza e di gestione delle risorse idriche, paradossalmente accorciare le distanze fra israeliani e palestinesi?

Il tema della questione di uno Stato palestinese, nella contingenza armata di questi mesi, è ancora fuori dalle discussioni in corso. Quel che è certo è che allo status quo precedente al 7 ottobre non crede più nessuno. Delineando gli scenari potenziali le opzioni sono tre: o uno Stato palestinese separato rispetto a Israele o un unico Stato binazionale o l’annessione formalizzata di Gaza e della Cisgiordania, che comporterebbe che Israele non è più ufficialmente una democrazia.

Fra i tre scenari, quello non necessariamente più bello ma più probabile è il primo. C’è un forte sostegno della comunità internazionale a questa soluzione, ma non c’è la volontà di accelerare le cose. Qualcuno dice che dalle grandi crisi arrivano grandi opportunità, che la situazione ha toccato il nadir e il riconoscimento di questo Stato ci sarà: spero che abbiano ragione.

E lo scenario dello Stato binazionale lo ritiene sul campo?

Tutto è sul campo, ma bisogna capire che Stato: sarà uno in cui hanno pari libertà e diritti israeliani e palestinesi? È difficile, ma nella storia ci sono esempi di riconciliazione. D’altronde, anche la soluzione dei due popoli due Stati è un grosso rompicapo. Una richiesta che viene ritenuta non negoziabile da parte palestinese è il ritorno dei profughi alla terra madre, cioè nel territorio di Israele (parliamo dei milioni di palestinesi che sono rifugiati nei Paesi dell’area). Il che implicherebbe avere uno Stato binazionale – lo Stato di Israele di oggi, escluse Gaza e Cisgiordania – e uno Stato nazionale palestinese. Questo non può essere accettato da un governo israeliano, ma c’è per esempio una proposta, formulata da accademici su Haaretz, per una Federazione di Stati: questa prevede il ritorno dei profughi palestinesi dentro lo Stato di Israele ma con uno status di cittadini palestinesi e non israeliani.

 

  

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