La caduta di Assad apre molti interrogativi sul futuro del Paese. L’Unione Europea dovrebbe proporre alcune risposte.

La caduta di Bashar al-Assad è arrivata quasi come un fulmine a ciel sereno nella situazione del Mediterraneo Orientale. Non che fosse del tutto inaspettato, vista la precaria condizione del suo governo e del suo braccio armato, ma non così rapida, né tantomeno così eloquente della condizione del nuovo Medio Oriente post-russo. Assad è caduto perché da un lato non è mai riuscito a “pacificare” per intero la sua nazione, divisa tra ribelli islamisti, democratici, curdi. Dall’altro lato, la principale fonte di supporto di Assad, ovvero la Russia di Putin, si è ritrovata tra le mani la sua cosiddetta “operazione speciale” - alias, l’invasione dell’Ucraina. Una guerra che non ci si aspettava potesse durare così tanto e che ha distratto preziose risorse belliche al di fuori del territorio siriano.

La mancanza di asset strategici capaci di supportare le forze siriane (non solo quindi l’aeronautica) ha lasciato allo sbaraglio le forze armate di Damasco e concesso ai ribelli – addestrati, armati anche da fazioni esterne – la possibilità di conquistare la capitale e rovesciare il regime. Come ogni guerra civile che va verso la sua conclusione, dopo più di un decennio di scontri, il vero puzzle si dipana adesso. Il momento della ricostruzione, tanto dello Stato nella sua forma politica e culturale, tanto materialmente delle città, diventano un bivio per la Siria. Un bivio che abbiamo già visto in altri casi, in altri Paesi che hanno affrontato delle complesse transizioni di potere.

Analizzare i potenziali futuri di una nazione come la Siria, non solo davanti un bivio interno, ma anche compresente ad una serie di problemi di natura geopolitica, è complesso: Israele e il genocidio a Gaza; il Libano che lentamente riscivola nel caos a causa dell’instabilità di vicini e di una vitale fonte di supporto, cioè l’Iran; la Turchia e i suoi interessi tanto in Levante che nel Mediterraneo espanso. Una congiuntura di eventi che rendono il futuro della Siria instabile, movimentato sicuramente, ma che al contempo può voler dire finalmente anche un salto verso un futuro maggiormente stabile.

Su questo vogliamo brevemente riflettere. Della storia della Siria si è parlato, ma è il suo futuro ciò che invece ci dovrebbe, specialmente come europei, interessare. Ci interessa perché non si può non comprendere come il portato di alcune trasformazioni sociopolitiche riecheggi altamente all’interno dell’Europa stessa. Basti pensare a come la nascita e la crescita dell’ISIS abbiano spinto giovani europei, europei nati in Europa e formati in Europa, a unirsi alle fila del gruppo terroristico. O come proprio l’inizio della guerra civile siriana più di tredici anni fa abbia creato una diaspora il cui peso si è sentito nelle nazioni del flusso migratorio balcanico. E non è impensabile anche che le trasformazioni politiche di tanti Paesi europei abbiano in parte subito un influsso proprio dall’effetto della diaspora e delle rotte migratorie aperte da chi, giustamente, rifuggiva il violento conflitto.

Ora che la Siria va ritrovando quella che sembra una apparente stabilità, un occhio esperto ne vede in sé i possibili semi del caos: differenze tra le parti in campo, presenza di attori estranei – in primis, Israele e la Turchia, ma anche gli USA, i retaggi russi -, la compresenza di fazioni visibilmente ostili tra di loro, desideri indipendenti di alcune di queste come i curdi. La tentazione di dare per già sulla via del caos la nazione è forte. Così come forte è la tentazione di pensare a quale possa essere il mezzo migliore per intervenire, sul campo, per evitare il disfacimento di questa sottile, fragile, struttura politica che si è andata instaurando. La tentazione di replicar quanto fatto con il Libano è evidente nelle dichiarazioni di molteplici politici. Eppure, la Siria forse offre la possibilità di tentare un approccio di state building diverso, in chiave non tanto americana, o russa, quanto piuttosto europea.

L’Unione Europea ha ovviamente un chiaro interesse nel garantire che la Siria diventi un attore statale, classicamente inteso, e che questo attore sia radicalmente più solido di tanti, troppi suoi vicini. Se Israele non lascia ben sperare per la stabilità della zona, la possibilità di creare tra Turchia e il caos meridionale uno stato solido è desiderabile fortemente. Al contempo, è una responsabilità che un’autorità che non ha ancora un “prestigio”, locale e internazionale, né tantomeno delle fondamenta solide, non può avere immediatamente. Serve, su questo, il supporto di un attore capace di supportare lo state building classicamente inteso, e in questo senso, forse l’Unione Europea ha qualcosa da portare sul tavolo.

C’è un problema di responsabilità morale, quella di poter offrire un supporto che è dovuto moralmente ad una popolazione che ha sofferto enormemente, e che al contempo rappresenta la chance per la Commissione von der Leyen di dare un imprinting nuovo al corso della politica estera europea. Un corso attivo, non passivo. Soprattutto, che esuli dal solo essere attore passivo della scena internazionale, ma anche un protagonista. L’azione in Siria può essere innanzitutto prototipica di altri interventi di state building laddove – in particolare, si pensi all’Africa – si sente la necessità di supportare la costituzione di entità più solide.

Un Medio Oriente pacificato vuol dire un Mediterraneo potenzialmente vantaggioso per qualsiasi scambio fra l’UE e i suoi vicini. 

Per la Siria, in particolare, qualsiasi azione dovrà tenere in conto la varietà degli attori in campo, sicuramente la diversità dei loro scopi, e cercare una “quadra” tra desideri e spinte che potrebbero confliggere, e quindi implodere. Che sia in ottica semi-federale – nel rispetto, per esempio, di quelle minoranze quali i curdi – o di tipo più centralizzato, l’Unione Europea ha la possibilità di stimolare attivamente un processo di crescita, e ricostruzione, del Paese. Un processo non teso come finanziamento, ma in linea con il piano Marshall, all’idea di ricostruire senza debiti per garantire un migliore futuro alla popolazione siriana e ai popoli vicini, in ottica anche di un futuro ritorno dei milioni di esuli alla loro legittima casa.

In un certo senso, un’azione di ricostruzione e di supporto è anche pragmatica. Un Medio Oriente pacificato vuol dire un Mediterraneo – e quindi un “fronte meridionale” – meno caotico, meno pericoloso e potenzialmente vantaggioso per qualsiasi scambio tra l’UE e i suoi vicini. La capacità anche di imporsi, e di rendersi un mediatore attivo con attori quali la Turchia, concederebbe all’UE una credibilità estera di cui ha bisogno per potersi rivendere, verso i suoi stessi cittadini, come più di un semplice ammasso di burocrazia e leggi spesso sconosciute.

 

  

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