Lontano dagli occhi del mondo, due generali alimentano con la violenza la propria sete di potere.

Dal 15 aprile 2023 il Sudan è ripiombato in una nuova guerra civile - o meglio in una guerra contro i civili - che ha provocato decine di migliaia di vittime e costretto milioni di persone ad allontanarsi dalle proprie abitazioni, senza cibo né cure mediche. Venti mesi di massacri a luci spente, in un conflitto dimenticato anche perché difficile da raccontare: i giornalisti internazionali non hanno accesso al Paese e quelli locali vengono minacciati, arrestati o uccisi. “Uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente” secondo le Nazioni Unite, il cui Consiglio di sicurezza ha votato per la chiusura della missione in Sudan e si è visto bloccare dalla Russia una risoluzione per il cessate il fuoco presentata dalla Gran Bretagna. Una dichiarazione di impotenza che segue diversi tentativi falliti di tregua e lascia i sudanesi in balìa di violenze che a volte possiamo solo immaginare, o intuire dalle analisi delle immagini satellitari.

Insieme alla capitale Khartoum, la regione del Darfur, già straziata dal conflitto dei primi anni Duemila, è ancora una volta quella dove si commettono le atrocità peggiori: stupri e uccisioni su base etnica, saccheggi e bombardamenti indiscriminati in un territorio in cui le forze paramilitari delle RSF (Rapid Support Forces), eredi dei tristemente famosi Janjaweed, si stanno scontrando con l’esercito regolare delle SAF (Sudanese Armed Forces).

Il CONTESTO STORICO
Ma riavvolgiamo un attimo il nastro. Il Sudan è un paese enorme, il terzo più grande del continente africano. Enorme ma poverissimo (i suoi 48 milioni di abitanti possono contare su un reddito pro capite annuo inferiore ai 1000 euro) e segnato, a partire dall’indipendenza raggiunta nel 1956, da una lunga storia di colpi di stato, conflitti etnici e guerre civili, l’ultima delle quali ha condotto all’indipendenza nel 2011 del Sud Sudan, abitato in prevalenza da popolazioni di origine subsahariana a maggioranza cristiana.

La parentesi democratiche in Sudan sono state sempre poche e brevi. Come l’ultima, seguita alla caduta del dittatore Omar al Bashir, che per trent’anni ha governato il paese dopo aver imposto la legge islamica. Bashir cadde, deposto dai militari, nel 2019, a causa della crisi economica e delle proteste per un forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Ma la transizione verso un governo civile non si è mai veramente concretizzata ed è definitivamente fallita nel 2021 quando il governo di Abdalla Hamdok venne rovesciato da un nuovo colpo di stato.

Da quel momento il controllo del Paese è passato nelle mani di due generali, Abdel Fattah al Burhan e Mohammed Hamdan Dagalo detto Hemedti, che hanno estromesso dal governo gli esponenti della società civile. Burhan, comandante dell’esercito sudanese con un ruolo di primo piano nella guerra in Darfur iniziata nel 2003 a seguito degli scontri tra gruppi ribelli e il governo accusato di opprimere le popolazioni locali, è ora alla guida del Consiglio Sovrano, la giunta militare che governa il paese; mentre Hemedti, allora comandante delle milizie arabe dei Janjaweed (i “demoni a cavallo”) assoldate dal regime, accusate di genocidio e colpevoli di vari crimini di guerra, è il suo vice.

LA GUERRA CIVILE DI OGGI
Se ad unirli è stata la collaborazione durante la guerra in Darfur, a dividerli adesso è l’ambizione di potere. Burhan è a capo dell’esercito (SAF), ma Hemedti non si è mai voluto privare delle sue milizie (RSF), che oggi formano una specie di esercito parallelo con dotazioni di equipaggiamento e armi non inferiori a quelli delle forze regolari. Proprio la volontà di Burhan di integrare nell’esercito sudanese le RSF guidate da Hemedti – indebolendone l’influenza e la possibilità di arricchirsi tramite il controllo di materie prime e flussi commerciali – è stata alla base della rottura dei rapporti tra i due. Prima formalmente alleati, la loro coalizione ha cominciato ad essere sempre più precaria, fino allo scoppio di questo nuovo conflitto con le prime operazioni militari condotte da Hemedti contro l’esercito regolare.

Le RSF possono contare sul sostegno degli Emirati Arabi Uniti dopo aver coltivato a lungo rapporti stretti con il gruppo Wagner, che forniva addestramento alle truppe in cambio dell’oro delle miniere sudanesi controllate da Hemedti che prendeva la via di Mosca. L’esercito regolare è invece appoggiato dall’Egitto e ha il vantaggio di avere a disposizione l’aviazione. Entrambe le parti proseguono indisturbate le violenze: le RSF portano avanti la pulizia etnica contro popolazioni non-arabe saccheggiando i mercati e le case, mentre l’esercito di Burhan bombarda dal cielo le zone controllate dalle milizie di Hemedti causando vittime anche tra la popolazione civile.

Al momento buona parte di Khartoum è distrutta e anche se le RSF sembrano aver ottenuto qualche successo militare e preso il controllo di alcune città, non si intravede una fine per questa guerra e le violenze rischiano di durare ancora a lungo. Lo scenario somalo, con il collasso dello Stato e le possibili infiltrazioni jihadiste, non è più un’ipotesi remota.

EFFETTI A CATENA
Quella del Sudan può sembrare una questione interna, ma in realtà si tratta di una crisi i cui effetti possono farsi sentire anche molto più lontano. La regione è uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo, è l’anello di congiunzione tra il mondo arabo e quello africano e si trova in punto strategico del Mar Rosso, da dove passa il dieci per cento del commercio mondiale.

Dove ci sarebbe bisogno di politiche lungimiranti da parte del mondo occidentale e dell’Unione Europea, però non se ne vede traccia. Forse non si sarebbe comunque potuto evitare un conflitto, ma l’arrivo al potere di Hemedti e Burhan fu ampiamente tollerato con la speranza che il potere militare fosse in grado di tutelare la stabilità, rinviando la questione della libertà dei sudanesi. La scelta più facile si è rivelata anche quella sbagliata. “La stabilità che promettono i signori della guerra ha i giorni contati e alla fine arriva sempre una crisi peggiore di quella che ci si era illusi di poter evitare scegliendo la strada più semplice”, ha dichiarato al Foglio Salah El Fahl, uno dei leader del Fronte civile sudanese, impegnato in una difficile transizione verso un regime democratico.

Con gli USA che hanno perso molta della propria influenza, in uno scenario dove le leggi internazionali sono indebolite e l’utilizzo della forza per la risoluzione delle controversie politiche rischia di tornare ad essere la norma, ci sarebbe bisogno di una Unione Europea in grado di agire come mediatore forte e credibile, di sostenere le richieste di democrazia, con una politica estera e di difesa comuni e un governo che risponda direttamente ai cittadini europei oltre che agli Stati membri. A parole tutti dicono che sia una priorità, ma poi ogni volta prevale l’ego delle capitali.

 

  

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