Dopo la disgregazione del blocco Sovietico, gli occhi dell’Europa hanno guardato a nord-est, trascurando che una strategia, elaborata e articolata, per il Mediterraneo è una assoluta priorità, soprattutto, per l’Italia. Come rivolgersi, presidente, ora all’Africa, o meglio, alle Afriche?

Alle “Afriche”, dice bene, perché dal Maghreb al Sahel, passando per le regioni sub-sahariane, i volti del continente presentano tratti di grande specificità. Tuttavia, in ogni caso, nel rivolgerci al continente e ai popoli africani dobbiamo essere guidati da serietà e prudenza. Sono evidenti, infatti, caratteristiche comuni, a cominciare dal basso livello di sviluppo. Anche qui, occorre introdurre dei distinguo: penso ai progressi in corso in Etiopia, a cui, però, fanno da contrasto realtà di assoluta staticità, per le quali è difficile tracciare prospettive di crescita.

Soprattutto laddove l’instabilità politica crea tensioni e conflitti

Qui si arriva al secondo aspetto che contraddistingue il continente, ovvero, la mancanza di democrazie veramente compiute. Con un’espressione anglosassone, diciamo che esiste un problema di governance che si traduce in un contrasto istituzionale, per cui alcuni paesi sono democrazie su carta, ma regimi nei fatti, i cui vertici sono occupati da leadership impreparate ad una transizione veramente democratica.

Il che alimenta frammentazione e focolai di terrorismo

A questo proposito, c’è stato, purtroppo, un cambio di passo, perché, se fino a circa 15 anni fa, fanatismi e radicalismi non attanagliavano l’intero continente, a seguito della guerra libica, che ha agito da detonatore, la loro diffusione ha raggiunto anche paesi finora estranei a questi estremismi spaziando dal Sahel fino al Mozambico. Un’excalation preoccupante, sia in termini di intensità, che di estensione geografica.

Un’excalation aggravata dall’urbanizzazione selvaggia di diverse megalopoli

Questo è uno dei volti dell’Africa che più mi preoccupa. La mancanza di sevizi igienici dignitosi, l’assenza di presidi sanitari, il riversamento degli abitanti dei villaggi rurali nelle bidonville delle grandi città, le sacche incontrollabili di disperazione ai margini delle città, rendono esplosiva la convivenza nelle periferie.

L’Ue ha caparbiamente inseguito il sogno della grande Unione Africana.

È vero: si tratta di un processo lungo e complesso, che implica trattative multilaterali e una visione d’insieme. Come creare un mercato comune, ad esempio, se non attraverso il superamento di una serie di barriere tra i singoli paesi, a cominciare dall’abbassamento di quelle doganali? Come far circolare merci e persone senza infrastrutture tradizionali, ma anche digitali?

C’è poi il grande capitolo della produzione e distribuzione di energia

Esatto. Infatti, reti energetiche e digitali sono strettamente interconnesse. Un seme, comunque, in anni di lavoro è stato gettato: certamente è insufficiente, l’Europa può e deve fare di più.

In cooperazione con la Cina, molto presente nel continente africano?

Vede, sia l’Europa che la Cina sono naturalmente spinte a guardare all’Africa: le loro attenzioni a quella parte di mondo non sono straordinarie e, tantomeno, sorprendenti. Il territorio cinese, estesissimo, è coltivabile per il 7% e povero di materie prime, come anche l’Europa. Di contro, la popolazione mondiale proviene per il 20% dal paese asiatico. Questo contesto motiva l’interesse di questi anni. Il nodo, semmai, è un altro e, anche qui, Europa e Cina hanno lo stesso problema di ingerenza: la prima per motivi storici, legati ai trascorsi coloniali, e la seconda, per l’eccessiva invadenza interpretabile in termini impositivi.

In altri termini, la questione non è esserci, ma come ci si pone

Esatto. Occorre portare un messaggio inequivocabile, che non sia strumentalizzabile. I popoli europei, cinesi e africani devono cooperare per lo sviluppo del continente, mettendo a sistema le rispettive eccellenze e risorse: ad esempio, perché non progettare e attrezzare ospedali e centri di cura? La Cina potrebbe molto contribuire nella fornitura di macchinari ospedalieri. A questo si dovrebbe affiancare un progetto europeo massiccio per dare vita ad una rete capillare di energie rinnovabili, pensata per estendersi su tutta l’Africa, a cominciare dai paesi della costa mediterranea. E, poi, bisognerebbe favorire le iniziative imprenditoriali, in particolare in tre grandi macroaree: sanità, scolarizzazione ed ambiente, con il coinvolgimento attivo dei giovani africani. Si sta affacciando una nuova generazione, anche imprenditoriale, che va sostenuta perché siano attori protagonisti del loro futuro. È un’occasione da non disperdere

Quale è il primo concreto passo?

Non possiamo pensare ad interventi settoriali. Il primo processo da attuare è nella direzione di un avvicinamento tra i popoli: quale pace possibile, se sull’altra sponda del Mediterraneo c’è solo miseria. Fino ad un secolo fa, centinaia di migliaia di nostri connazionali popolavano Egitto, Libia, Tunisia: marinai e commercianti delle due coste comunicavano in un dialetto simil-maghrebino. Intendo dire che gli interventi finanziari, i rapporti commerciali, la costituzione di una Banca comune, sono tutti strumenti efficaci alla cooperazione internazionale, ma va ristabilito quel profondo legame tra le genti che è nel DNA dei popoli mediterranei ed è estendibile a quelli nord-europei e dell’Africa profonda, perché i nostri ostacoli e limiti non sono solo comuni con Spagna, Cipro o Slovenia. I rapporti umani e culturali sono la premessa di qualsiasi possibile sviluppo.

Per questo, nel 2001, lei propose in Commissione Europea la costituzione di una rete di Università miste. La cosa non si concretizzò: Non crede che, alla luce della tragedia libica, sia maturo ribadire l’opportunità di dare un luogo, uno spazio, alla formazione, in cui crescere insieme?

È il mio sogno: un segnale concreto e dal costo molto limitato. Un’università condivisa -Barcellona con Rabat, ad esempio, le sedi e Alessandria d’Egitto con Napoli- con uguale numero di professori e studenti europei e africani, con obbligo di frequenza in entrambi le sedi per uno stesso numero di anni. Attorno al nostro Mezzogiorno tornerebbe a fiorire una civiltà florida e multiculturale, in questa regione si concentrerebbero dialogo, risorse, progetti.

A partire da una sorta di Erasmus euro-africano

Esatto. Pensi a quale straordinario corso avvierebbe. Quale rivoluzione pacifica sarebbe, quale patto di fiducia rinsalderebbe…Io penso sia l’ora del coraggio.


L'intervista è stata pubblicata su L’Osservatore Romano del 28 luglio 2020.

 

  

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