La destra italiana ha iniziato grandi manovre per ridefinire la propria posizione in Europa.  Il percorso è appena iniziato e non si sa ancora quale sbocco potrà avere.  Da tempo Fratelli d’Italia ha seguito una traiettoria che in realtà sembra ispirata all’ultimo Gianfranco Fini quando il leder di An iniziò, sotto le ali protettrici e maieutiche di Giuliano Amato, un percorso di avvicinamento alle istituzioni europee prima con la  sua nomina a membro italiano nella Convenzione europea per il trattato costituzionale e poi con le sue scelte autonome in direzione di un conservatorismo moderato grazie ai buoni rapporti personali con Nicolas Sarkozy e David Cameron.  La strada percorsa da Fini è stata lunga, in quanto è passato nell’arco di poco più di un decennio dalle rivendicazioni territoriali sul confine ex-Jugoslavo e  da un euroscetticismo di fondo, ad una posizione nettamente filo europea. Molti ricorderanno l’imbarazzo manifesto che esibì in occasione dell’infausta presentazione del governo Berlusconi al Parlamento europeo quando il leader di Forza Italia diede del kapò (sic) al capogruppo socialista Martin Schultz.  

Giorgia Meloni è partita anch’ essa da posizioni euroscettiche sulla scia del Berlusconi d’annata, ma negli ultimi mesi ha iniziato un revirement , tanto da aver dichiarato all’inizio deìl’anno – suscitando un notevole scalpore tra gli interlocutori del salotto di Lilly Gruber  - che la posizione del suo partito non era affatto contraria all’Europa tout court , bensì critica per alcune sue politiche e anzi favorevole a interventi anche più decisi dell’Unione purché rispettosi delle autonomie nazionali: insomma un sovranismo debole in chiave confederativa, una visione da Europe des patries di gollista memoria, riveduta e corretta sugli anni pandemici.  Questa slittamento progressivo verso Bruxelles , pur contradetto da molte invettive tribunizie per non perdere contatto con la destra dura e pura anti-massonica e anti-plutocratica, le è valso un riconoscimento importante, e cioè la guida del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti. Forse, aver sciacquato un po’ i panni con amici del Tamigi è servito a far capire quanto sia importante rimanere con entrambi i piedi in Europa e sfruttarne tutte le potenzialità in termini di accountability e probation: vale dire  usare questo veicolo per una piena accettazione nell’establishment europeo.

E’ esattamente questo l’obiettivo che sta perseguendo, fin dall’autunno scorso, il vice-segretario della Lega Giorgetti . Scosso dal coro di sollievo che in tutte le cancellerie occidentali si è levato al momento dell’estromissione della Lega salviniana dal governo, Giorgetti ha iniziato un’ opera di tessitura per portare la Lega nei salotti europei . Sembra maturata la consapevolezza che senza un beneplacito della classe dirigente internazionale un governo a guida leghista avrebbe avuto un parto difficilissimo, ed anche la presenza dominante del partito in una coalizione governativa non sarebbe stata affatto ben digerita.  Allo stato attuale, le varie dichiarazioni e interviste del vice-segretario e di qualche altro suo adepto non hanno sortito grande effetto: in maggio Salvini ha alternato nel ruolo di responsabile dell’economia un anti-euro dopo l’altro, avendo sostituto Claudio Borghi con il fautore dell’Italexit, Claudio Bagnai.  Il leader della Lega non sembra intenzionato a modificare il suo rapporto conflittuale con Bruxelles in linea con la postura populista e sovranista adottata ormai da molti anni. Chi ha parlato di un avvicinamento con la Cdu della cancelliera Merkel non consce l’idiosincrasia che quel partito prova nei confronti delle posizioni leghiste. Oltre alla comunanza con l’Afd pesa anche e soprattutto l’abbraccio con Marine Le Pen con i quali la Lega condivide una stessa visione del mondo, anti-sistemica e anti-liberale.  Solo un cambiamento radicale – e traumatico – nella dirigenza leghista, che al momento sembra fantapolitico, può avviare la Lega su un cammino diverso. Ma dovrebbero essere modificate talmente tante scelte da rendere il partito del Carroccio qualcosa di irriconoscibile rispetto al presente, ed al passato, con il potenziale rischio di perdita dell’elettorato tradizionale.

Chi invece sembra aver avuto una illuminazione sulla via di Bruxelles è Silvio Berlusconi. Chi ricorda le invettive pluriennali contro l’Euro di Prodi e l’Europa superstato che imbrigliava le capacità di sviluppo dell’Italia costringendola a curare il nostro enorme debito fino ad aver ordito il “colpo di stato” (copyright Renato Brunetta) contro l’ultimo governo Berlusconi nella fatidica estate del 2011, in piena tempesta finanziaria, non può che essere stupito dal recente orientamento filo-europeo espresso più volte e con accenti molto espliciti dal leader di Forza Italia. Ovviamente dopo la condanna e l’interdizione ai pubblici uffici con conseguente espulsione dal Senato nell’estate del 2013, Berlusconi aveva bisogno di farsi accettare di nuovo nell’establishment internazionale ed europeo. E quindi ha incominciato una marcia di avvicinamento ricucendo, almeno a livello formale, i rapporti persino con Angela Merkel. (En passant non va nemmeno dimenticato quanto possa aver giocato in questo buon viso pro-europeo il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la revisione della condanna).  

Se a destra c’è i movimento, a sinistra vengono invece confermati i tradizionali orientamenti tanto che il Pd esprime il presidente del Parlamento Europeo, Davide Sassoli, e ha come ministro dell’Economia un esponente delle istituzioni comunitarie europei come Roberto Gualtieri.  

Rimane l’enigma 5stelle. Una ricerca condotta sul comportamento di voto nel parlamento europeo della legislatura 2014-2019 forniva un risultato sorprendente: nonostante l’adesione al gruppo eurofobico di Farage e le dichiarazione tranchant di Grillo and co., i parlamentari pentastellati hanno votato molto più spesso con i liberali rispetto ai loro compagni di gruppo. Poi il sostegno a Ursula von der Leyen e il passaggio al gruppo dei non-iscritti ha modificato ulteriormente la loro posizione. Tuttavia questa scelta “istituzionale” non è stata confermata in maniera consistente perché in varie  occasioni gli europarlamentari del M5s si sono trovati d’accordo con gli euroscettici e  in contrasto con gli alleati di governo nazionale.

In effetti, le recenti evoluzioni politiche dei partiti italiani sembrano passare tutte da Strasburgo dove si imbastiscono e si sperimentano nuovi allineamenti, forieri di diverse configurazioni di alleanze anche a Roma.  Ancora una volta il terreno europeo si presenta coma un campo di gioco fondamentale per definire anche le politiche nazionali.

  

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