Tra poche settimane si definiranno le linee programmatiche delle principali famiglie politiche europee in vista delle prossime elezioni del maggio 2019. Con le dovute eccezioni, ad accomunarle sarà un richiamo alla necessità di una maggiore “crescita” per l’economia europea, declinata in crescita “sostenibile”, “verde”, “competitiva” a seconda degli schieramenti. Al contempo, la Commissione Europea conferma una frenata dell’attività economica a fine 2018 a causa delle incertezze sulle politiche commerciali a livello globale, del rallentamento della produzione manifatturiera nonché di tensioni sociali e politiche in alcuni paesi membri. I fondamentali economici rimangono sani, ma l’Unione Europea soffre ancora di un importante ritardo negli investimenti, di tipo sia ciclico che strutturale, tale per cui molti Stati membri non ha ancora raggiunto un livello di investimenti in rapporto al PIL comparabile alla situazione precedente alla crisi economica, e allo stesso tempo settori quali la Ricerca, Sviluppo & Innovazione, l’energia, le infrastrutture legate ai trasporti e il comparto delle Piccole e Medie Imprese sono cronicamente sotto-finanziati rispetto alle loro necessità. D’altro canto, che da maggiori investimenti scaturisca una maggiore crescita non è automatico: perché ciò accada, gli investimenti devono essere produttivi, complementari (e non sostitutivi) all’intervento privato e rivolti a settori quali educazione e infrastrutture, che incrementano a lungo termine il capitale umano e fisico.
Che ne è stato dunque del Piano di Investimenti lanciato dal Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker all’inizio del suo mandato con l’obiettivo di mobilitare 315 miliardi di Euro di investimenti nell’arco di tre anni? L’iniziale curiosità legata al Piano e gli elementi di novità portati nel dibattito economico e politico rispetto alla visione tradizionale dei finanziamenti europei (non più fondo perduto ma prestiti, garanzie e venture capital) hanno lasciato spazio ad una implementazione costante e senza grandi intoppi, basata su procedure in gran parte consolidate. E quella che era una misura ad hoc volta a colmare il crollo del 15% negli investimenti verificatosi dal 2007 al 2014, si avvia ormai ad essere una misura continuativa, legata a doppio filo al bilancio europeo.
A febbraio 2019 il gruppo della Banca Europea degli Investimenti (incluso il Fondo Europeo per gli Investimenti) ha approvato finanziamenti per circa 70 miliardi di Euro che si prevede genereranno investimenti per circa 380 miliardi, raggiungendo nel complesso più di 800 mila PMI e sostenendo quasi 1 milione di posti di lavoro. Gli obiettivi del Piano lanciato a luglio 2015 sono quindi stati ampiamente superati, e a dicembre 2017 il Parlamento Europeo aveva già esteso l’intervento al 2020 con un obiettivo finale di 500 miliardi.
Il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (cd. EFSI), il primo e principale pilastro del Piano Juncker, ha mobilizzato con successo finanziamenti in quei settori dove l’intervento pubblico è necessario, poiché caratterizzati da situazioni di investimento sub-ottimali, con una buona distribuzione geografica tra i paesi della “vecchia Europa” (cd. EU-15) e i paesi entrati nel 2004 (cd. EU-13), soprattutto in rapporto alla dimensione delle rispettive economie: se Francia, Italia e Spagna hanno ricevuto di più in termini assoluti, sono Grecia, Estonia e Portogallo, seguiti da molti paesi dell’Est Europa ad aver beneficiato di più dagli investimenti in rapporto al loro PIL.
Le valutazioni di EFSI condotte internamente dalla BEI, così come i rapporti della Corte dei Conti Europea e degli esperti indipendenti incaricati dalla Commissione, ne hanno giudicato l’impostazione, l’implementazione e i risultati in termini generalmente positivi, per quanto una più completa valutazione dell’impatto degli investimenti generati sull’economia reale sarà possibile solo ad uno stadio più avanzato del loro ciclo di vita. Facendo leva sulla garanzia fornita dal bilancio UE, EFSI ha sostenuto progetti altamente innovativi, con un profilo di rischio maggiore rispetto al passato e di fatto non si sarebbero raggiunti gli stessi risultati, nella stessa misura e alle medesime condizioni, senza il contributo di EFSI (la cd. addizionalitá). Inoltre, larga parte degli investimenti mobilitati dai progetti EFSI (i.e. la leva esterna) proviene da investitori privati (l’80% a fine 2017) attratti dalle condizioni favorevoli messe in moto dall’intervento pubblico, in virtù del crowding-in. Non mancano naturalmente le critiche: la Corte in particolare ha sottolineato come parte delle operazioni approvate nell’ambito di EFSI avrebbero potuto essere finanziate con altri strumenti esistenti e come in generale i risultati vadano rafforzati promuovendo livelli di rischio sostanzialmente più elevati, incoraggiando la complementarietà con altri fonti di finanziamento e migliorando la distribuzione geografica degli investimenti.
Se da un parte non si può negare la volontà di inquadrare il Piano di investimenti in uno storytelling di successo, estendendo il più possibile il suo “timbro” per poterne aggregare utilmente risultati e massimizzare il suo impatto sull’opinione pubblica e tra i decisori politici, gli va riconosciuto il merito di essere stato istituzionalizzato come un nuovo corso dei finanziamenti pubblici all’economia europea con la creazione del Fondo InvestEU.
L’esperienza di EFSI, e degli altri strumenti finanziari esistenti, ha mostrato infatti la necessità di una semplificazione e di una maggiore coordinazione del contributo del bilancio UE agli investimenti per il prossimo periodo di programmazione finanziaria 2021-2027. Come EFSI, InvestEU potrà “fare di più con meno”, ponendo la promessa di una garanzia di circa 40 miliardi (che va di fatto finanziata solo in parte in base alle aspettative di utilizzo) alla base di una leva cui contribuiscono i fondi propri di altri soggetti (anche diversi dalla BEI) che viene poi calata nell’economia reale con l’obiettivo di attrarre nuovi investimenti sia pubblici che privati per quasi 700 miliardi complessivi.
Il Regolamento di InvestEU è stato approvato a larga maggioranza dal PE il 16 gennaio 2019 ed è ora in lettura al Consiglio e agli Stati Membri, con l’obiettivo di concludere il negoziato entro la fine della legislatura. Il nuovo programma segue e sostituisce EFSI centralizzando sotto un’unica gestione gli strumenti finanziari dell’UE e diventando il punto di riferimento per gli intermediari finanziari e per i beneficiari finali che si districano al momento tra diverse regole di eleggibilità, monitoraggio e reportistica a seconda dei programmi, con il rischio di sovrapposizioni e inefficienze. Al di là dei prevedibili ostacoli di armonizzazione, la necessità di mettere ordine è indubbia e inoltre un’unica garanzia applicata trasversalmente ad un portafoglio diversificato di rischi richiede una dotazione finanziaria minore rispetto a singole garanzie previste oggi in modo separato per ogni strumento e da finanziarsi ognuna in funzione del rischio coperto.
Per la prima volta, anche attori diversi dalla BEI avranno accesso diretto alla garanzia UE per sostenere i propri prodotti finanziari: istituzioni quali la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, la Banca Mondiale e la Banca del Consiglio d’Europa cosi come le banche nazionali di promozione quali la Cassa Depositi e Prestiti (congiuntamente in modo da coprire almeno tre paesi) potranno quindi colmare lacune tematiche o geografiche specifiche e gli stessi Stati potranno contribuire al programma con parte dei propri fondi di coesione aumentandone quindi l’impatto sull’economia reale.
Infine, e torniamo al tema iniziale della “crescita”, InvestEU nasce con quattro principali obiettivi di politica economica: infrastrutture sostenibili; ricerca, innovazione e digitale; PMI; investimenti in ambito sociale (educazione, salute, edilizia). Il PE, dal canto suo, ha chiesto un maggior focus sugli obiettivi climatici e ci sarà comunque una certa flessibilità nella redistribuzione delle risorse tra i vari obiettivi in base a esigenze del mercato e alle priorità politiche, trattandosi della proposta di una Commissione e di un Parlamento “uscenti”. Sebbene l’infrastruttura proposta abbia spiccati caratteri di neutralità rispetto all’indirizzo politico, i tempi e i modi della sua concezione vanno nella direzione di un allineamento tra il periodo di programmazione finanziaria e il mandato politico di Commissione e Parlamento. In questa stessa direzione si muovono anche sia la proposta franco-tedesca di un budget dell’Eurozona, volta a sostenere competitività e convergenza nei paesi dell’Euro tramite investimenti in innovazione e capitale umano, sia le altre proposte volte all’ampliamento e ad una maggiore diversificazione del bilancio europeo. Non è un’influenza politica sulle decisioni di investimento e sulle necessità del mercato ad essere auspicabile ma piuttosto la consapevolezza che il mandato politico di chi si appresta a governare l’Europa a seguito delle prossime elezioni comprenderà anche indirizzare in un’ottica comune di crescita gli strumenti di politica economica a livello sovranazionale e mettere il bilancio UE (in una versione possibilmente rinnovata) utilmente al servizio di tali obiettivi.
Fonte: Commissione Europea