La vita, la morte e la miracolosa resurrezione della Banca Italiana di Sconto meritano un esame piuttosto dettagliato”. Comincia così il primo articolo di Piero Sraffa scritto in inglese, dedicato al salvataggio della Banca di Sconto nel 1922. L’articolo lo aveva chiesto il direttore dell’Economic Journal, John Maynard Keynes, che aveva conosciuto il giovane Sraffa poco tempo prima a Cambridge. Sraffa fu franco nella ricostruzione dei fatti e impietoso nel commento, contestava la modalità del salvataggio della Banca di Sconto, metteva in evidenza la necessità di nuove leggi per “prevenire la formazione di cartelli, per salvaguardare l’indipendenza delle banche, per regolare l’ammontare delle riserve a tutela dei depositi”. Ma se anche queste leggi esistessero, concludeva l’autore, “che utilità potrebbero avere fino a quando è lo stesso Governo a infrangerle sotto il ricatto di una banda di uomini armati o di un gruppo di spregiudicati finanzieri?”.

Nata nel 1914 dalla fusione della Società Bancaria Italiana e la Banca di Credito Provinciale di Busto Arsizio, negli anni della guerra la nuova banca era cresciuta oltremisura, nel 1920 annoverava 220 filiali, otto delle quali all’estero, i quindici milioni di lire di capitale iniziale erano diventati 315. L’azionariato, in cui dominavano i proprietari dell’Ansaldo, era come il nodo avviluppato di Rossini, i destini della Banca Italiana di Sconto erano viziosamente legati a  quelli del gruppo industriale, poi travolto dalla crisi dell’industria del primo dopoguerra.

Alla ricerca dell’indispensabile liquidità, i soci tentarono senza successo la scalata alla Banca Commerciale Italiana, fino al precipitare della crisi nel 1921. Il consorzio di banche organizzato dal Governatore Bonaldo Stringher si rivelò inadeguato, la banca era “too big to fail”, il fallimento venne evitato solo con il soccorso dei denari pubblici.

Così andavano le cose nell’Italia del 1922, in modo non diverso da come andrebbero nell’Italia di quasi un secolo dopo. Se non fosse che nel frattempo i paesi europei si sono dati una moneta unica e vincoli a comportamenti virtuosi per evitare che la dissipatezza di uno affligga i molti.

La storia dello scandaloso salvataggio della Banca di Sconto evoca le difficoltà in cui si trovano oggi alcune banche italiane, ma se le analogie storiche sono istruttive, è bene usare buone dosi di cautela.

Quella della Banca di Sconto fu un’avventura effimera, sette anni di crescita febbrile e poi il crollo. Le banche che occupano le cronache finanziarie hanno alle spalle lunghe storie di presenze territoriali e storici primati. Gli anni dopo il 2008 sono stati per l’economia italiana i peggiori del secondo dopoguerra, ma non sono certo paragonabili agli anni Venti, quando il rapporto debito pubblico e PIL toccò il 160%, i tagli dei salari e i fallimenti di grandi gruppi come ILVA o Ansaldo mandarono in povertà centinaia di migliaia di persone.

Il nostro tempo ha il suo carico di afflizioni. Tra il 2008 e il 2013 il PIL è sceso di nove punti percentuali, gli investimenti crollati del 30%, la produzione industriale diminuita di circa un quarto, la disoccupazione salita a valori record. Il lascito al sistema bancario italiano è stato una quantità enorme di crediti in sofferenza, quelli che una locuzione ipocrita definisce “non performanti” (NPL, Non Performing Loans). In questi stessi anni le autorità regolatrici hanno preteso dalle banche in tutta Europa seri interventi sul capitale e il sistema bancario europeo si avvicina al completamento di questa grande fase di ricapitalizzazione.

Tranne alcuni singoli casi. Su due banche ex popolari la Commissione Europea ha chiesto di affiancare alla ricapitalizzazione pubblica (circa 6,4 miliardi di euro) la partecipazione di capitale privato per un miliardo di euro. La disciplina comunitaria impedisce arbitri e disinvolture come accadde nel caso della Banca di Sconto e degli altri che seguirono.

Al di là delle norme europee sul “bail-in”, che prevede che il salvataggio coinvolga risparmiatori e investitori privati prima dell’intervento pubblico, l’Italia paga la sua reputazione di grande debitore. E tutto diventa più complicato: l’incapacità dimostrata finora di aggredire la spesa pubblica improduttiva e abbattere il debito pubblico aliena le simpatie comunitarie, affievolisce la disponibilità all’accondiscendenza. In dieci anni di moneta unica il Belgio ha ridotto il suo debito pubblico da 120% all’80%, noi siamo saliti a oltre il 130%. La classe politica italiana dovrebbe comprendere che alla radice della sfiducia c’è la questione irrisolta del debito pubblico.

L’Italia è uno dei Paesi più favorevoli alla riforma dell’Eurozona, ma poi non fa quanto necessario per creare le condizioni per realizzarla; servono coerenza e senso di responsabilità. Questa ci pare una buona fotografia della realtà, per la grande questione del debito come per le vicende delle ex popolari.

  

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