Il dibattito sugli accordi commerciali internazionali e, per quanto riguarda l’Europa, sul CETA e sul TTIP (quello già raggiunto con il Canada e quello ancora in via di negoziazione con gli Stati Uniti), si è intensificato notevolmente nelle ultime settimane, soprattutto a causa della crescente opposizione dell’opinione pubblica nei confronti di un’ulteriore apertura, pur regolamentata, dei mercati. Nello scorso numero del giornale, Stefano Rossi ha spiegato ampiamente ed efficacemente i termini della questione (“È fallito il TTIP?”, L’Unità europea n.4/2016, pag. 8). Ma dopo il clamoroso comportamento del Parlamento vallone diventa necessario aggiungere qualche altro elemento di riflessione sul valore politico, oltre che economico, di questi negoziati.

La cronistoria degli ultimi mesi indica che, nonostante le crescenti tensioni, la volontà di portare avanti questi accordi esiste ancora in Europa. Il 23 settembre scorso a Bratislava, alla riunione del Consiglio dei Ministri per il commercio insieme alla Commissione europea, era stato infatti deciso di prendere atto dell’impossibilità di chiudere i negoziati per il TTIP entro la fine del 2016, lasciando però aperto l’iter che verrà presumibilmente riavviato una volta chiusi i vari capitoli elettorali e di procedere subito con la firma ufficiale del CETA. Quest’accordo aveva subìto un duro colpo a giugno, quando la Commissione europea era stata costretta, su pressione di alcuni governi nazionali, in particolare di Francia e Germania, a dare il via libera all’iter di ratifica del trattato nella forma del cosiddetto “accordo misto”, che implica che il Consiglio deve approvarlo all’unanimità, e poi, una volta che l’accordo è stato sottoscritto e ratificato dal Parlamento europeo, deve ancora avere l’approvazione di tutti i parlamenti nazionali dell’Unione. Non si trattava di una via obbligata, ma purtroppo su questo punto i Trattati lasciano ancora, sulla base di alcune clausole specifiche, un diritto di veto “a monte” agli Stati membri.

Il 23 settembre, a Bratislava, in ogni caso, l’unanimità nel Consiglio per procedere alla firma con il Canada il 27 ottobre sembrava acquisita. Ma il potere di ricatto che la regola dell’unanimità lascia nelle mani di ciascuna entità “sovrana” all’interno dell’UE è talmente elevato e pericoloso che ha permesso al Parlamento vallone di far saltare tutto, avendo la possibilità di impedire al governo belga la firma dell’accordo. Il risultato è stato che il Ministro canadese per il commercio ha abbandonato il tavolo del negoziato e la firma del 27 ottobre è saltata; e benché alla fine la Vallonia abbia ceduto, resta il fatto che un Parlamento che rappresenta 3,5 milioni di cittadini e che agisce sulla base di interessi particolari di politica interna, ha il potere di tenere sotto scacco un accordo che ha un valore enorme, politico ed economico, per quasi 500 milioni di europei.

Tutto questo dimostra chiaramente come, dietro ad un simile atteggiamento della politica nazionale, si nasconda un pericolo profondo. Nel mondo occidentale soffia ormai un vento antiglobalizzazione che si accompagna al desiderio di ripristinare la protezione dei confini e delle prerogative nazionali, e che può avere effetti devastanti. Soffia nei paesi europei, come dimostra l’esito del referendum britannico; e soffia negli Stati Uniti. Per i paesi europei cedere a questa sirena comporta smettere di perseguire l’obiettivo di una maggiore integrazione politica a livello europeo e tentare di “rimpatriare” a livello nazionale poteri di controllo, in primis affermando nell’Unione europea la supremazia e il rafforzamento del metodo intergovernativo, ossia del coordinamento tra i 27 governi nazionali, senza costruire una democrazia europea sovranazionale e senza delegare potere effettivo alle istituzioni europee.

Questa scelta è suicida per gli europei. I fatti di questi mesi dimostrano che in questo modo essi mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’Unione, arrivando a mettere in discussione persino la scelta di fondo a favore di un’economia aperta di mercato, vettore di tutta la crescita del continente a partire dal secondo dopoguerra. Sembra quasi che gli Stati europei abbiano addirittura la tentazione di volersi presentare sulla scena del commercio mondiale singolarmente, scegliendo deliberatamente di rinunciare a qualsiasi ruolo di responsabilità a livello internazionale, incluso quello del governo della globalizzazione. È evidente che in uno scontro tra grandi blocchi continentali i singoli Stati europei potrebbero solo cercare di collocarsi in posizioni di nicchia, da cui cercare di sfruttare gli spazi lasciati aperti dai grandi contendenti, come tendono a fare i paradisi fiscali e in generale i piccoli paesi che riescono a ritagliarsi condizioni particolari. È questa la filosofia che sembra muovere il governo britannico nel cercare, confusamente, di concepire il ruolo del Regno Unito del dopo referendum. Ora, è evidente che la prima condizione per il successo – se così si può definire – di una strategia tipicamente da “free rider” (che si traduce bene con “scrocconi”) è in realtà quella di potersi rapportare in condizioni privilegiate ad un’area che invece appartiene al gruppo di testa che traina la globalizzazione; ed è anche evidente che si tratta in ogni caso di una strategia incompatibile con l’ambizione di essere “un grande paese”.

In questo scontro sul CETA (e sul TTIP), è in gioco quindi molto di più della ratifica o del rigetto di un semplice accordo. I negoziati erano stati impostati sia con l’ambizione di creare uno strumento (importante) per la crescita nel lungo periodo, in grado di aiutare l’Unione a rafforzarsi in vista dello spostamento del centro di gravità mondiale della produzione (e del conseguente potere economico) verso l’Asia, che entro il 2025, come stima la stessa Commissione europea, produrrà oltre il 30% del PIL mondiale (contro il 20% scarso europeo, tenendo conto che già oggi l’Europa ha una crescita troppo lenta e attira relativa-mente pochi capitali privati); ma anche con l’obiettivo di costringere le altre aree del mondo ad adattarsi agli standard europei, grazie alla forza che il blocco occidentale coalizzato costituirebbe. Chi pertanto teme che gli accordi commerciali con il Canada (e in prospettiva con gli USA) comportino un abbassamento degli attuali livelli normativi e di tutela europei sbaglia clamorosamente bersaglio, ancor di più per quanto riguarda il CETA in cui tutte le richieste europee a questo proposito sono state accolte ed incluse.

In questo quadro, non bisogna inoltre dimenticare che la tentazione negli Stati Uniti di chiudere il capitolo delle trattative con l’Europa e di provare a praticare un nuovo nazionalismo sono forti in questo momento. Benché Hillary Clinton sia stata tra i fautori dei negoziati per il TTIP e anche scontando l’aspetto propagandistico elettorale delle sue attuali dichiarazioni negative potrebbe essere effettivamente spinta a rinunciare a quest’accordo, soprattutto se i segnali dall’Europa annunciassero una scarsa volontà politica e una progressiva autoreferenzialità nelle scelte dei governi nazionali. In quel caso, la via della ricerca degli accordi bilaterali, con l’evidente sproporzione di potere che esiste, potrebbe essere allettante. Alimentare questo comportamento americano sarebbe suicida per gli europei: in una globalizzazione sempre più inceppata, la rinuncia da parte degli Stati Uniti di giocare un ruolo di leadership costruttivo insieme agli europei, e insieme, l’ulteriore indebolimento di questi ultimi, alimenterebbero solo il circolo vizioso della competizione senza regole e della reazione protezionistica, mettendo gravemente a repentaglio la crescita – e la democrazia nel mondo.

Dalla capacità, o dall’incapacità, degli europei di comprendere e gestire la sfida che si nasconde dietro i trattati con il Canada e gli USA dipende quindi una parte importante del futuro del nostro continente, e del mondo. In questa fase di transizione e cambiamento, tutto si lega, e tutto va ad alimentare la grande sfida tra chi vuole il ritorno del nazionalismo e chi crede nella possibilità di creare un sistema aperto e cooperativo di governo della globalizzazione. Per gli europei questo è il fronte della battaglia per il salto verso l’unità politica federale, contro il ritorno suicida alle vecchie aporie nazionali. Sbagliare nemico, in questi frangenti, può essere letale.

  

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