Domenica 23 ottobre 2022 è stato un giorno importante per la Cina, e non solo. Il presidente cinese Xi Jinping è stato rieletto dal congresso del Partito Comunista per il terzo mandato consecutivo, rinnovando così la sua carica per altri cinque anni.
La nuova era, però, non è iniziata nel migliore dei modi per l’uomo più potente della Cina, che a fine novembre ha dovuto gestire le proteste scoppiate contro la politica “zero Covid”, dopo che nella città di Urumqi, la capitale dello Xinjiang, dieci persone sono morte in un incendio dentro una palazzina. I video diffusi online mostravano la difficoltà dei soccorritori a raggiungere l’edificio e spegnere l’incendio a causa delle barriere fisiche predisposte in funzione anti-Covid. L’ondata di dissenso, che ha preso il nome di “rivoluzione dei fogli bianchi” per via dei fogli in bianco con cui i cinesi hanno manifestato, a simboleggiare l’assenza della libertà di parola, si è diffusa poi in decine di altre grandi città, tra cui Pechino, Shanghai e Nanchino.
Presumibilmente anche a causa di questi disordini, il Governo ha deciso infine di cambiare approccio e allentare queste misure, paragonando la nuova variante a una semplice influenza stagionale e permettendo anche agli asintomatici e ai cittadini con sintomi lievi di andare comunque al lavoro. Oltre alle proteste, una probabile causa del cambiamento di atteggiamento verso il Covid sono state le pesanti conseguenze economiche che una tale politica ha provocato in questi anni, causando un rallentamento della crescita del PIL di poco più di due punti percentuali nel 2022.
Ma in che cosa consisteva questa politica “zero Covid” che ha causato così grandi problemi?
Dall’inizio della pandemia, la Cina ha considerato il Covid come un nemico da affrontare e debellare del tutto. Puntava ad essere il primo Paese a diventare Covid-free, in modo da ripulirsi l’immagine dopo che ne era stata il focolaio.
Il Partito ha, quindi, iniziato una politica fortemente aggressiva e quasi irrazionale, considerando l’intangibilità del nemico da eliminare. In realtà, le misure adottate non sono apparse così diverse da quelle degli altri Paesi: ricerca di positivi, test di massa, tracciamento fino al secondo contatto, quarantena, controllo sono tutte politiche che abbiamo visto e vissuto anche in Europa. Ciò che ha contraddistinto l’operato cinese sono state la rigidità e la coercizione eccessive con cui sono state fatte rispettare le norme. Controllo ossessivo tipico delle peggiori dittature di carattere orwelliano. Nel concreto questo si è tradotto nell’imposizione del lockdown in interi quartieri e città in cui era presente anche solo un numero esiguo di positivi, con la conseguente chiusura ad esempio di scuole, ristoranti e parchi pubblici.
Con l’aumento esponenziale dei contagi negli ultimi mesi del 2022, la sola risposta che Pechino ha saputo dare è stata quella di imporre restrizioni ancora più dure. L’aumento dei positivi, in controtendenza con l’andamento mondiale, è stato causato sia dal basso numero di vaccinati tra le categorie più fragili, sia dal fatto che è stata imposta la somministrazione del vaccino cinese Biotech Sinovac, vietando quelli prodotti in Occidente che sono più efficaci. Una scelta quindi dettata da ragioni politiche e ideologiche. Non è infatti un mistero la grande rivalità esistente tra USA e Cina, con quest’ultima che intende diventare a tutti gli effetti una superpotenza nello scacchiere mondiale, ponendo fine al monopolio degli americani.
Ed è proprio questa cultura antioccidentale ad accomunare due Paesi così diversi, e per secoli in conflitto tra loro, come la Russia e la Cina. La teoria di Huntington riguardo lo scontro delle civiltà, secondo cui i conflitti post-Guerra Fredda non sarebbero stati determinati da ragioni economiche e ideologiche, ma dalle diverse culture esistenti, sembra più attuale che mai. L’improbabile alleanza tra le due potenze è stata rafforzata e ufficializzata con una dichiarazione congiunta firmata a Pechino il 4 febbraio 2022. Secondo Alexey Maslov, professore esperto in paesi asiatici dell'università di Mosca, ciò che è stato realizzato attraverso questo documento è una linea di pensiero comune sui valori e gli interessi politici. Tra i punti salienti ci sono una più stretta collaborazione economica ed energetica (e questo fa pensare che l’invasione dell’Ucraina e le probabili future sanzioni occidentali fossero già previste), una collaborazione più politica, con la Russia che obbliga la Siria di Assad ad aderire alla via della seta e che riconosce Taiwan come parte inalienabile della Cina, e quest’ultima che condanna i tentativi di espansione della NATO. Nonostante questa rinnovata collaborazione, però, lo scoppio della guerra solo 20 giorni dopo (il 24 febbraio), sembra aver colto Xi Jinping impreparato, anche perché il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi è un elemento chiave della politica estera di Pechino. All’inizio la posizione cinese è rimasta vaga, astenendosi dalla condanna (anche in seno alle Nazioni Unite) e dall'utilizzare la parola “guerra”, in linea con le posizioni di Mosca. Ha quindi resistito alle pressioni dell’Occidente di isolare il Cremlino. Dall’altro lato, tuttavia, la Cina ha più volte chiesto di evitare un’escalation arrivando alla pace, senza contare che per adesso si è sempre rifiutata di fornire armi (cosa però non da escludere in futuro).
Questa ambiguità può essere spiegata nel momento in cui coesistono una forte repulsione verso l’Occidente, ma anche una situazione di forte interdipendenza con esso, in quanto la principale fonte di ricchezza per Pechino sono gli scambi commerciali con Stati Uniti e Unione europea.
A un anno dal conflitto, però, la situazione in Ucraina non è cambiata e c’è anzi un concreto pericolo di un’escalation. Le armi e le munizioni a disposizione di Kiev si stanno esaurendo, una parte della popolazione civile in Europa sta diventando sempre più insofferente alla guerra, e Putin ha annunciato che sospenderà la partecipazione al trattato New Start per il controllo della proliferazione degli arsenali nucleari, siglato con gli Usa nel 2010. In questo contesto il capo della diplomazia cinese Wang Yi ha annunciato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco che la Cina presenterà una proposta di dodici punti per trovare una soluzione politica alla guerra, candidandosi quindi come principale mediatrice tra le parti. Inoltre, Pechino ha pubblicato un documento chiamato “Global Security Initiative Concept Paper”, con l’obiettivo di eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali e migliorare la sicurezza globale, affidandosi alla governance dell’ONU. In queste iniziative si può chiaramente intravedere la volontà di Xi Jinping di creare un nuovo equilibrio nelle relazioni internazionali, accrescendo la sua influenza a scapito degli Stati Uniti.
E in tutto ciò dov’è l’Unione europea? Come si può immaginare, il suo ruolo in questo momento delicato della storia è pressoché nullo. I singoli stati nazionali non possono avere un grande potere negoziale e diplomatico, come si è già potuto notare prima dello scoppio della guerra, con le visite di Macron e Scholz al Cremlino, finite con un nulla di fatto. L’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, non ha nessun potere sovranazionale per quanto riguarda la cosiddetta “high politics", ovvero questioni vitali di sicurezza nazionale e internazionale. In questo modo non viene garantita l’osservanza dell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea, che in modo quasi poetico recita: “Nelle relazioni con il resto del mondo l'Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli”. Come si fa a realizzare questi fini se non si hanno i mezzi necessari? Inoltre, è veramente possibile che sia la Cina, con le sue costanti violazioni dei diritti umani e le sue repressioni di libertà, a prendere le redini del gioco e a proporre piani di pace e di sicurezza internazionale? Non dovremmo essere noi europei a prendere l’iniziativa? Finché restiamo divisi, l’unico scenario a cui siamo destinati è quello di venire sopraffatti dalle nuove e vecchie potenze mondiali, perdendo così la nostra autonomia e libertà di scelta.