La morte di Raisi accentua ulteriormente le tensioni interne al regime iraniano e il confronto con Israele serve a tenere il consenso interno e distrarre dalle altre difficoltà.

La locandina del film Holy Spider (2022)

Mashhad, oltre 3,4 milioni di abitanti, la seconda città dopo Teheran, da cui dista 900 km, è la principale città santa dell’Islam sciita, ma meno conosciuta rispetto a Qom, molto più piccola, ma a soli 100 km dalla capitale. Tra il 2000 e il 2001 un assassino seriale, sposato con prole, soprannominato Spider Killer uccise sedici prostitute (il film Holy Spider, a lui ispirato, è stato premiato a Cannes nel 2022). Nel 2002 fu catturato e giustiziato ma, ergendosi a moralizzatore di una città peccatrice, trovò molti sostenitori. 

Ventidue anni dopo, la morte di un serial killer di stato come il Presidente della Repubblica Islamica Ebrahim Raisi (e del ministro degli esteri), in prima linea nella repressione del dissenso, ha visto comunque ai suoi funerali migliaia di persone. Anche mettendo in conto una parte di coercizione, è stato il segno evidente che il regime gode tuttora di un certo consenso. L’Occidente ha ancora difficoltà a capire culture così distanti, per molti aspetti peggiori della nostra, ma da comprendere meglio se vogliamo contrastarle con più efficacia. Invece la Somalia dopo Siad Barre, l’Iraq dopo Saddam Hussein, la Libia dopo Gheddafi e l’Afghanistan riconquistato dai Talebani dopo vent’anni quasi senza combattere, dimostrano che troppo spesso sappiamo vincere le guerre e poi perdiamo la pace.

L’economia iraniana è più vicina al modello sovietico che al mercato.

Dopo 45 anni di teocrazia, a causa delle sanzioni occidentali e delle politiche dissennate del regime (è il primo paese al mondo per sussidi ai combustili fossili), l’Iran è un paese in ginocchio perché, in nome dell’ortodossia dell’Islam sciita reprime le sue forze migliori. I dati sono eloquenti: la corruzione è altissima (CPI 2023) e la fuga dei cervelli sembra inarrestabile. L’economia è più vicina al modello sovietico che al mercato: non vi è alcuna “pianificazione centralizzata” ma è in gran parte controllata dalle fondazioni religiose e dai pasdaran, le guardie rivoluzionarie, quindi di fatto dallo Stato. Infatti in quanto a libertà economica l’Iran è tra i Paesi peggiori (Economic Freedom Index), ma è anche agli ultimi posti nel Democracy Index 2023: 153° su 167 paesi. Tutto è comunque sintetizzato dai limitati progressi nell’ISU, l’Indice di Sviluppo Umano dell’UNDP: se nel 1990 l’Iran era al 90° posto su 160 paesi, nel 2022 era salito al 78°, ma su 193 paesi.

Al di là della retorica del regime iraniano, la sua prudenza nel confronto con Israele e USA, è sintomo della sua fragilità.

Il regime è indebolito al suo interno anche dalle numerose minoranze etniche del paese: i persiani costituiscono solo il 61%, gli azeri il 18%, i curdi il 10%, gli arabi il 6%, oltre ad etnie minori. Un regime con queste difficoltà, come qualunque regime totalitario, ha bisogno di un nemico esterno per consolidare il consenso e giustificare la repressione: gli Stati Uniti e, molto più “affrontabile”, Israele. Tuttavia, nonostante l’Iran abbia quasi 90 milioni di abitanti e Israele solo 9, è quest’ultimo ad essere militarmente più forte: nel 2023 l’Iran ha avuto una spesa militare di 10,3 miliardi di dollari, mentre Israele 27,5 (dati Sipri). Dell’oltre mezzo milione di soldati arruolati nelle forze armate iraniane, quasi un quarto è costituito dalle guardie rivoluzionarie, mentre i militari israeliani sono circa 170.000, ma evidentemente meglio addestrati ed equipaggiati. Al di là della retorica del regime, la sua prudenza nel confronto con Israele e USA, è sintomo della sua fragilità. Invece, uno dei molti problemi di Israele è probabilmente la frammentazione del suo sistema rappresentativo: per entrare nella Knesset la soglia è del 3,25% (fino al 1992 dell’1%), rendendo le coalizioni ricattabili dai partiti minori (com’è successo diverse volte anche da noi). 

L’Iran e, su scala maggiore, la Russia hanno ambizioni di potenza non supportate da un adeguato sviluppo economico: entrambi contano soprattutto su risorse primarie, e non sono molto diversi dalle economie più arretrate. Forse sta in questa contraddizione tra aspirazioni geopolitiche e le insufficienti risorse per concretizzarle la loro potenziale pericolosità, non solo all’esterno ma anche nella repressività interna. Il regime fascista italiano visse la medesima contraddizione. 

Nella logica repressiva, l’Afghanistan dei Talebani è più coerente: proibendo l’istruzione superiore delle ragazze impedisce il formarsi di un’opposizione di genere, com’è successo in Iran, dove il 60% dei laureati è di sesso femminile (ancora più coerente era Hitler, che nei paesi conquistati dell’Est Europa voleva limitare l’istruzione di tutti alle classi elementari).

Molti sanno che i principali donatori verso i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania sono Stati Uniti e Unione Europea, pochi sanno però che gli stessi palestinesi per almeno vent’anni sono stati al primo posto nel mondo per aiuti pro capite, poi al secondo perché superati dalla Siria. Viste le condizioni di vita a Gaza, due milioni di abitanti in 365 kmq, simili a quelle dei paesi del Sahel, i più poveri del mondo, c’è da chiedersi che fine abbiano fatto quelle risorse, evidentemente depredate dagli stessi corrotti vertici palestinesi, che dalla miseria del popolo traggono le reclute per il terrorismo.

 

  

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